Pubblicato in: Arte e Cultura

La melodia delle armi.

Domenica 21.02.2016

Il Museo Nazionale dell’arte del XXI secolo, denominato Maxxi, nella capitale romana, offre un’ampio ventaglio di esperienze artistiche di autori provenienti da ogni parte del mondo.

Questa domenica pomeriggio sono andata a visitare questo moderno Museo e devo ammettere che sono rimasta affascinata dall’opera di Pedro Reyes: un’intera orchestra dai melodici toni costruita interamente con i resti armi rinvenute (e rese non funzionanti) dall’esercito messicano. Strumenti disarmati, il titolo dell’installazione artistica e questa denominazione ben rende l’idea che l’artista vuole trasmettere con la sua opera.

La prima impressione è piacevolmente spiazzante, il significato che comunemente assegniamo al concetto di arma diventa in quest’opera un messaggio fortemente non convenzionale, fuori dagli schemi usuali in cui normalmente categorizziamo gli oggetti del mondo. Violenza, terrore, morte e distruzione echeggiano nell’immaginario collettivo nel proferire la parola “arma”; e proprio su questa certezza data dal senso comune si innesta l’effetto sorpresa per chi osserva: la parola arma si trasforma in un melodico concerto meccanico, costruito dall’uomo sulle ceneri della guerra.

Pistole e fucili suonano all’interno della sala allestita per la mostra, non si può non rimanere affascinati,o perlomeno incuriositi, da questa installazione di ingegneria sociale dell’artista messicano, un messaggio che lascia veramente….. disarmati!

Collegamento al sito del Museo Nazionale delle arti del XXI secolo

Pubblicato in: Comunicazione e Società

Sanità Lombarda sotto inchiesta: ipotesi di Associazione a delinquere.

 

In Italia l’argomento corruzione, declinato in svariati ambiti, non conosce limite alcuno.

Che si tratti di sanità, politica, settore pubblico o privato, dalle agenzie di stampa nazionali a quelle locali, dalle televisioni alle radio, il tema corruzione non conosce crisi di sorta, alimentato dai comportamenti degli attori sociali in campo, qualsiasi esso siano.

Il  probabile declino morale e materiale stavolta riguarda la Lombardia, il consigliere regionale, Presidente della Commissione Sanità, Fabio Rizzi è stato arrestato per presunta associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, turbativa d’asta e riciclaggio, coinvolti anche 10 ( o secondo altre fonti, ben 21) funzionari per una gestione illecita di appalti pubblici per aziende ospedaliere lombarde.

L’operazione Smile, condotta dai Carabinieri del Comando provinciale di Milano, apre le porte all’inchiesta della Procura di Monza su un un gruppo imprenditoriale privato intento ad aggiudicarsi appalti per la gestione di servizi odontoiatrici tramite l’ormai consueto mezzo della corruzione di funzionari pubblici. Anche in tal caso l’attrazione irresistibile per il “Dio Denaro” ha vinto, o perlomeno così sembra, secondo quanto riportato oggi dai media.

Sito consigliato, liberi temi di attualità, politica, cultura e molto altro!

Pubblicato in: Sociologia della salute e della medicina

I mille volti della disabilità

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Nell’immagine Pinel spezza le catene dei malati  di Robert Fleury (Parigi, Ospedale)

Immagine tratta da Wikipedia 

Foto di C.L. Muller (Prima immagine in alto)

Estratto del primo paragrafo del lavoro per  tesi di Laurea Magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica presso Sapienza Università di Roma- Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale.

Tesi di Laurea Magistrale Prima classificata nel bando di concorso per dissertazioni sul tema della disabilità

1. Il triangolo della malattia: Ilness, Sickness, Disease secondo un approccio connessionista alla disabilità.

In questo capitolo intendo definire la disabilità come una poliedrica manifestazione fisica e/o psichica dell’essere umano che difficilmente si presta ad una definizione unitaria e univoca.

Tanto complessa si presenta la sua definizione (mai statica, ma dinamica e soggetta alle evoluzioni scientifiche e sociali della comunità nel susseguirsi del tempo) quanto molteplici si presentano le domande circa la sua contestualizzazione nella società odierna, soprattutto in rapporto al tema della salute.

Oggi quest’ultima è un problema sociale e il suo concetto si evolve al mutare degli scenari della società in cui si manifesta; rispetto ai tempi passati, a seguito della transizione demografica e della transizione epidemiologica cambiano le modalità con cui la salute viene intesa (Giarelli, Venneri,2012;157).

 Se nelle società proto industriale la salute si configura come una semplice assenza di malattia, la transizione demografica presenta un quadro di riferimento in cui diminuiscono drasticamente natalità e mortalità e in cui la popolazione che invecchia è in incremento continuo; parallelamente nella transizione epidemiologica le patologie prevalenti sono quelle cronico degenerative soprattutto negli anziani, diminuisce l’emergenza sulle malattie infettive (Giarelli, Venneri ,2012;158).

Questo mutato scenario apre la strada alla nuova concezione normativa dell’OMS, la norma si riferisce alla costruzione di un nuovo quadro di valori verso cui orientare le azioni dei servizi sanitari: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo assenza di malattia” (OMS,1948).

In linea con tali premesse è possibile riferirsi ad un modello analitico per cui la salute diventa un processo più che uno stato, definito dalle connessioni delle relazioni sociali che formano il sistema salute; il fenomeno della disabilità si manifesta in forme diverse a seconda del contesto culturale e storico in cui origina e delle relazioni tra gli attori istituzionali e non, che vi partecipano: in tal senso è multidimensionale (Giarelli, Venneri,2012;161).

 La sociologia della disabilità, fondata su un approccio connessionista[1] si propone di sviluppare un modello multidimensionale della disabilità, quest’ultimo termine si è spesso trovato relegato ai margini della riflessione sociologica, accomunato ai concetti di malattia e devianza (Di Santo,201;50).

Le varie correnti sociologiche che si sono succedute nel tempo classificano e interpretano la disabilità secondo varie accezioni.

 Il filone struttural funzionalista identifica la disabilità come devianza, il disabile è un deviante, colui che appunto devia dalla norma attesa in una comunità; per la corrente interazionista la disabilità coincide con lo stigma, per cui il disabile è essenzialmente un discriminato; nella corrente socio biologica la disabilità appartiene alla sfera della cronicità e il disabile diviene dunque un paziente adattato; nella visione conflittualista la disabilità si identifica col sub proletariato e il disabile è uno sfruttato, un emarginato; l’approccio connessionista, invece, pone la disabilità in termini di (dis) uguaglianza e il suo oggetto d’analisi è il cittadino( Di Santo,2013;23).

In questo testo, se non altrimenti specificato, la parola disabilità è intesa secondo le sottocategorie definite dall’OMS, dunque disabilità fisica, cognitiva, intellettiva, sensoriale(OMS,2011).

Definire la disabilità ed analizzare i termini ad essa correlati risulta di fondamentale importanza, se si considera che, tramite l’analisi della “forma” delle parole, si possono rintracciare nelle parole stesse i contenuti che rimandano alle tipologie di interventi sulla promozione dei diritti delle persone che ne sono portatrici.

 La parola disabile presenta un’etimologia di origine latina e risulta composta dal termine “habilis” che significa abile con un’evidente accezione positiva, destinata però a cambiare segno se si procede alla combinazione della predetta con il prefisso “dis” (quest’ultimo dotato di una connotazione negativa), con la conseguenza che il significato finale della parola in esame coincide con il concetto di non abilità.

In greco antico invece il prefisso “dys” esprime una deviazione dalla norma ed è spesso utilizzato in ambito medico e statistico, anche se restringere il campo d’indagine al settore sanitario appare eccessivamente riduttivo, non foss’altro per il fatto che, ad esempio, “il ritardo mentale, come oggetto di conoscenza, non ha mai avuto una collocazione permanente in un campo: è stato, e continua a essere, un oggetto del discorso medico, psicologico, pedagogico, morale, umanitario e politico” (Carlson in Medeghini, 2013:176).

A livello esemplificativo si cita il ritardo mentale in quanto tale categoria medica presenta un alto livello di interconnessioni disciplinari nel tentativo di volerne descrivere le caratteristiche.

 Nel ventesimo secolo molteplici sono le definizioni per identificare la disabilità, altrettanto diversi sono i modelli concettuali e teorici utilizzati per analizzare questa condizione, i quali si inseriscono nella dimensione della storia della disabilità anche se il confine è strettamente legato alla storia della malattia, in quanto il legame tra le due è sfumato e non delimitato nettamente, infatti storicamente la medicina svolge un ruolo predominante nell’interpretazione della categoria disabilità.

 Secondo il modello multidimensionale della disabilità infatti, il rapporto tra malattia e quest’ultima è strettamente connesso, nei primi modelli medici della comunità scientifica internazionale, la menomazione fisica e/o psichica è la causa della malattia.

 Pertanto, ridurre la problematica della malattia ad una questione solamente medica, significa, ad esempio, trascurare l’emarginazione sociale.

Significa, in altri termini, ignorare che la definizione di disabilità non descrive un vero e proprio attributo della persona (intesa come entità multi sfaccettata, nel quadro di quella visione poliedrica dell’essere umano di cui si è accennato in apertura). Il minimo comune denominatore, l’elemento che tutti coinvolge, è proprio il concetto stesso di norma, la quale inserisce la nostra esistenza in una rete di significati che assumono le sembianze della dicotomia tra chi è nella norma e chi è fuori dalla norma.

Parlare di inclusione presuppone che esista il suo opposto, ovvero l’esclusione.

Appare necessario procedere ad un brevissimo excursus storico-sociale per identificare i significati culturali e sociali della disabilità nella storia.

 Le fonti che permettono lo studio della realtà nel mondo antico sono legate all’archeologia, alla letteratura come anche allo studio dei miti, delle istituzioni sociale e dei riti.

Le tracce dell’antichità non riportano molte notizie sull’esistenza di persone con infermità intellettive, al contrario di quelle riguardanti le deformazioni fisiche; basti pensare alla creazione della mitologia del mostro nel mondo antico, che incarna il caso limite della disabilità fisica.

Nell’antica Babilonia, in Grecia e nella Roma imperiale condotte classiche di eliminazione consistevano nell’infanticidio dei bambini nati con deformazioni fisiche; la disabilità era un vero e proprio segnale divino: un castigo degli dei che colpiva i genitori ingrati.

 Inoltre fattori economici e teologici contribuivano a considerare la disabilità una grave limitazione per le famiglie dell’epoca (Di Santo,2013).

Si suppone che le condotte di eliminazione e di abbandono da parte di queste antiche società non fossero le uniche; le infermità intellettive godevano di una maggiore considerazione, in alcuni rari casi si verificano episodi di valorizzazione.

Le differenze sociali nel trattamento delle disabilità anche all’epoca erano legate alla classe di appartenenza: cura e assistenza, così come integrazione, erano prerogative dei ranghi sociali più alti, la plebe e gli schiavi invece, erano condannati alla povertà e all’emarginazione.

I cosiddetti “pazzi” provocano diverse reazioni nella società, la follia era spiegata con l’intervento di una divinità soprannaturale incarnata nell’individuo, tanto da incutere timore e rispetto nel prossimo; in rari casi però i folli erano considerati portatori di grandi virtù.

 La maggioranza di costoro, relegati ai margini della vita di comunità, erano sottoposti a regimi disciplinari.

 Successivamente, nei testi biblici compare la figura di un Dio maggiormente misericordioso più che punitivo, orientato all’accoglienza e al supporto più che all’emarginazione e all’esclusione dei diversi (Scianchi,2014).

Le pratiche sociali del passato antico nei confronti della disabilità permettono di giungere alla definizione di quel substrato culturale e collettivo che, tramandato di generazione in generazione, si tramuta nell’odierno pregiudizio.

 Nel corso del tempo le modalità delle istituzioni per il recupero dei soggetti disabili sono cambiate al mutare del progresso civile e morale delle società (Di Santo,2013).

 Il modello multiforme di disabilità abbraccia le tre dimensioni della storia sociale della disabilità, del pregiudizio, dello stereotipo e dello stigma come limitazioni, per cui è possibile allargare l’orizzonte alle diverse culture storiche della disabilità, per giungere poi comprendere in quali modalità oggi la società interpreta questo costrutto multidimensionale in ambito istituzionale (Di Santo,2013).

Se, nell’immaginario collettivo l’evitamento e l’esclusione erano destinate ai soggetti con la lebbra nel Medioevo, successivamente tale trattamento sarà destinato ai malati di mente a cavallo tra XVI e il XVII secolo.

 L’epoca dell’illuminismo si avvale dei progressi della scienza medica, anche se le pratiche rispondevano a trattamenti molto spesso inumani e disgustosi (Di Santo,2013).

 In seguito si passa dalla restrizione in strutture, all’isolamento in altre, ai fini di protezione e cura, sotto il controllo di operatori specializzati: nascono dunque i manicomi. Già nel 1840 si afferma nella società inglese il concetto di anormalità, legato imprescindibilmente allo stato di malattia (Medeghini et al,2015); Galton nel 1833 modifica “la distribuzione normale” della curva di Gauss per identificare alcune caratteristiche ricorrenti nelle popolazioni.

 Linguisticamente il concetto di “norma” si struttura nella disciplina della statistica (Davis in Medeghini,2015); Adolphe Quètelet con il suo concetto di media diventa il precursore dell’idea della norma affiancata al progresso, ne consegue una suddivisione ideale della popolazione tra coloro i quali appartengono alla norma e quelli che ne sono al di fuori.

A partire da tali considerazioni con la revisione della distribuzione normale Galton modifica la teoria statistica ponendo le basi successive per lo sviluppo dei test di intelligenza e di quelli scolastici (Davis in Medeghini,2015).

 Quest’ottica di normalità (contrapposta all’anormalità) si genera per le esigenze del gruppo dominante di controllare e concretizzare una forma sociale gerarchizzata. A partire dal XIX e XX secolo, la disabilità intellettiva-idiozia (da intendersi come una mancanza) era già distinta dalla follia, andando a configurare una condizione a sé stante e non una sottospecie di alterazione mentale data dalla pazzia.

 Le pratiche istituzionali contribuirono a creare definizioni e trattamenti in strutture organizzate; è nelle scuole per deboli mentali che si studiavano le disabilità intellettive.

Questi primi modelli si basavano sulla segregazione, con l’implementazione di istituzioni speciali. In Francia J.M. Gaspard Itard e E. Seguin, a metà del milleottocento, cercarono di educare un bambino (Victor) elaborando poi una pedagogia speciale per le disabilità intellettive.

Tali tentativi furono mal accolti nella nazione di origine, ma furono esportati negli Stati Uniti; nel contempo, il fondatore della psichiatria moderna, Pinel affermava le possibilità di guarigione dei soggetti affetti da follia, purché sottoposti a trattamenti esclusivamente in ospedali e istituzioni speciali.

Gli istituti per deboli di mente erano denominati Scuole, e in America si svilupparono nella metà del XVIII secolo; custodia addestramento ed educazione erano le parole chiave per comprendere le finalità di tali istituzioni (Medeghini, 2013).

Infatti, erano previste la protezione e la custodia per coloro i quali non rispondevano allo stimolo educativo, mentre si perseguiva lo scopo della trasformazione di soggetti potenzialmente curabili in individui produttivi per la società.

 Disciplina ed esclusione connesse alla disabilità intellettiva erano le caratteristiche fondamentali che connotavano chiaramente i summenzionati Manicomi, Scuole o Istituzioni.

 In Francia e in Gran Bretagna nascevano forme di controllo sociale per queste categorie di persone, come le leggi per l’internamento per malattia mentale contro la volontà dei soggetti, attraverso il potere delegato ai medici (Medeghini, 2013).

 Il pericolo sociale e immutabile derivante dalla “imbecillità morale” era tenuto in considerazione, tanto che Isaac Kerlin scriveva quanto segue: “Noi abbiamo delle persone che a causa di qualche errore congenito o difetto radicale a carico dei centri recettivi, sono parzialmente, o a volte del tutto, privi del cosiddetto senso morale, e nessun ambiente o educazione potrà sopperire a tale deficienza.” (1976:307)

L’idea di fondo era però quella di migliorare la condizione dei deboli di mente, attraverso l’educazione e l’istituzione di ambienti adatti che assumevano i connotati di una sorta di riformatorio a fini produttivi. Nella realtà (scevra da ipocrisie ideologiche), più che di educazione, si trattava di un vero e proprio addestramento e controllo, ai fini di lavori manuali in un contesto industriale.

 La logica che guidava l’istituzione era utilitaristica; lo scopo ultimo dei sovrintendenti (i medici preposti alla cura dei disabili) era di renderle persone utili alla società.

Gli internati al contempo erano oggetti e strumenti dell’ente.

Nel 1876 venne creata l’Association of medical officers of american Institution of idiotic an feeble-minded person, per lo studio di quella che, una volta, era definita deficienza mentale.

La maggior parte delle conoscenze prodotte sulle cause, sui trattamenti, sulle definizioni e sulle teorie sono dovute all’esistenza di tali istituti, cosi come i numerosi progressi nella medicina specialistica.

 I compiti principali di tali organizzazioni professionali erano trasversali; l’impostazione si proponeva di essere medica, pedagogica e, contemporaneamente, terapeutica nei riguardi dei deboli di mente (R. Medeghini,2013).

 Agli inizi del Novecento, la questione dell’idiozia viene concettualizzata in termini quantitativi; il medico francese Seguine, dedito allo studio del ritardo mentale, si focalizzava sull’analisi delle funzioni del corpo ed ipotizzava una cura data dall’istruzione, se non per tutti, almeno per la maggioranza dei deboli di mente. Per questi ultimi si configurava, allora, un problema di grado e di intensità e non di genere. (Medeghini, 2013:181)

 Seguin, infatti, affermava che “egli è uno di noi nell’umanità, ma rinchiuso in un involucro imperfetto” (1919, p.48).  Ancora oggi in clinica si utilizzano i test quantitativi per determinare il grado di intelligenza e di debolezza mentale, al fine di poter effettuare una misurazione dimensionale del funzionamento intellettivo.

Tuttavia, in quei periodi storici, non scompaiono affatto le rappresentazioni qualitative degli idioti, considerati simili agli animali, come una sottospecie umana o addirittura appartenenti ad una altra razza. Le stesse definizioni scientifiche e tecniche erano profondamente influenzate da questo substrato culturale.

 La classificazione delle abilità umane ordinate gerarchicamente e la misurazione del Q.I. contribuirono notevolmente a formare la definizione stessa di debolezza mentale (Medeghini et al,2013).

 Se nelle interpretazioni quantitative si esprimeva comunque l’appartenenza al genere umano, seppur con diverse manifestazioni dalla norma, l’interpretazione qualitativa assegnava connotati negativi e di differenza quasi ultraterrena verso i cosiddetti idioti e imbecilli.

Dopo la seconda guerra mondiale un movimento internazionale di scienziati pubblica articoli e opere a sfavore delle istituzioni totali per malati mentali, in un chiaro attacco alla logica e alla prassi della disciplina psichiatrica.

 In seguito si sperimenteranno nuove forme istituzionali per la cura dei disagiati psichici (nel quarto paragrafo si riprenderà la dimensione della Sickness in relazione alla storia sociale della disabilità a partire dai modelli teorici elaborati nella storia recente in tema di disabilità).

Nell’odierno contesto del dibattito sociologico appare necessario descrivere la disabilità in un’ottica prettamente sociale, al fine cogliere le sfumature che caratterizzano tale condizione nelle relazioni col loro ambiente di riferimento.

 Il termine disabile si connota, inoltre, per possedere caratteristiche che rimandano etimologicamente all’etichetta e alla diseguaglianza, oltre che al sapere tecnico e specialistico di natura medica (Di Santo,2013).

L’intimo rapporto tra malattia e disabilità li pone entrambi nella stessa dimensione concettuale, seppur mantenendo ognuno un’autonoma identità semantica.

L’integrazione è il processo che connette simultaneamente le due condizioni sopradescritte.

In questo capitolo, al fine di comprendere l’intrinseca relazione tra malattia e disabilità, si procederà descrivendo dapprima le dimensioni della prima e, successivamente quelle della seconda.

Per comprendere la costruzione sociale del fenomeno della malattia è necessario introdurre Il triangolo terapeutico, o della malattia, di origine anglossassone; il quale è composto dalle relazioni esistenti tra i concetti di Illness, Sickness e Disease (Young, Kleinman,2006). Si specifica che tali termini, nati nella cultura scientifica inglese, sono intraducibili letteralmente in italiano e pertanto verranno riproposti nel testo così come originati dalla cultura inglese (www.treccani.it).

 Questa modalità di considerare più dimensioni della malattia è, in realtà, alla base della Medicina Narrativa (NBM), la quale si origina negli Stati Uniti dagli studi della Harvard Medical School che si ispirano ad un approccio ermeneutico e fenomenologico[2] (Giarelli, Venneri;2012;270).

 Kleinmann[3] considera la malattia come una costruzione culturale, un insieme di significati simbolici che modellano la realtà.

In virtù di tale convinzione, salute malattia e medicina sono essi stessi sistemi simbolici in interazione tra di loro, in cui si ritracciano i significati, i valori e le norme che strutturano l’esperienza della malattia (Di Santo, pdf).

Nella società contemporanea vale un principio alquanto contradditorio, ovvero “…il paradosso è costituito dal fatto che la malattia è allo stesso tempo il più individuale e il più sociale degli eventi…” (Augè, 1986:34).

Le parole dell’antropologo aiutano a comprendere che, sia dal punto di vista del singolo, sia della collettività, l’ambivalenza fenomenica della malattia sia una caratteristica di entrambe le dimensioni della malattia come della disabilità (Giarelli, Venneri,2012)

Questa considerazione introduttiva permette di evidenziare come l’evento della malattia sia specificatamente frutto anche di un costrutto sociale: la relazione sociale che si instaura intorno a tale fenomeno è di tipo triadica e genera un sistema d’interazione sociale tra la persona, la medicina e la società (Giarelli, Venneri,233;2012).

La Illness corrisponde all’esperienza di malattia esperita dalla persona, la quale si inserisce in una cornice universale del vissuto umano; è il malessere soggettivo in un’accezione prettamente psicologica e culturale.

Le manifestazioni psico-fisiche dell’infermità sono tradotte dall’essere umano per mezzo del linguaggio, quest’ultimo è però un tramite imperfetto e la sola conoscenza del contesto non esaurisce il contesto culturale in cui esplica il ruolo del malato.

Questo termine (Illness), descrive l’insieme delle percezioni soggettive e va oltre il significato classico di malattia, intesa come disfunzione organica, è il modo in cui affiora la consapevolezza del disturbo nel soggetto.

L’elaborazione di alcuni vissuti problematici e la compresenza di ostacoli sociali nella coscienza del singolo caratterizzano tale condizione che si può definire e manifestare anche come un disagio(Kleinmann,1980).

Il termine disease rimanda alla componente medica, la quale certifica l’evento come appartenente alla sfera della patologia; quest’ultimo rimanda alla categorizzazione nosologica delle malattie, all’etichetta medica che le identifica: la visione organica e scientifica biomedica è pienamente espressa da Disease.

Sickness è l’insieme delle relazioni sociali della malattia e corrisponde alla piena accettazione del ruolo del malato di fronte alla società, ovvero il riconoscimento sociale dei sintomi; quella trama di relazioni insita nel tessuto sociale di riferimento per una comunità, in cui un comportamento preoccupante e segni biologici assumono una rilevanza socialmente significativa (Young, 1982).

 Quest’ultima può essere positiva per alcuni versi (ad esempio il soggetto ha accesso alle cure mediche) o anche negativa (la connotazione identitaria di malato, molto vicina a quella di disabile, si identifica tradizionalmente come una condizione non desiderabile dai membri di una società).

Sickness, alla base di disease e di Ilness, concerne come la società riconosce o meno uno stato di malattia; il suo modo di interpretarlo e anche di stigmatizzarlo: è il contesto di relazioni in cui si inserisce la disabilità.

Fin dall’antichità l’approccio sociale e culturale alla disabilità in genere, si caratterizza per essere compreso nel concetto di stigmatizzazione elaborato da Goffman[4] ; la relazione sociale, corrispondente allo stigma, opera in virtù delle differenze (biologiche, sociali, psicologiche) tra individui.

 Nel contesto sociale si verifica una prima distinzione tra coloro che vivono lo stigma e coloro che ne sono esclusi.

In seguito si attribuisce a costoro uno stereotipo negativo al fine di stabilire una netta demarcazione tra individui stigmatizzati e individui non stigmatizzati; a tutto ciò consegue un declassamento del soggetto, una perdita di statuto; l’individuo si colloca nell’area dello stigma vero e proprio.

La società, intesa come sickness, stabilisce inoltre confini giuridici e norme, modella le pratiche di cura mediche.

 È importante ricordare che l’interazione tra le tre componenti della triade della malattia è perennemente dinamica e mai statica, muta e si trasforma a seconda del contesto culturale e sociale in cui agisce; l’elemento fondamentale da tenere in considerazione è che la malattia è un fenomeno multidimensionale in continua costruzione tra persona malata, medicina e società (Giarelli, Venneri,2012;234)

Sono state sviluppate in seguito da Maturo[5] sette combinatorie delle interazioni possibili della triade sopradescritta.

 A titolo esemplificativo si potrebbe verificare una illness senza disease e sickness; in tal caso non esiste il riconoscimento sociale della malattia da parte del medico e della società anche se il soggetto avverte un disagio, come sensazioni di malinconia, insoddisfazione etc…  (Di Santo,2013).

A questo punto, è necessario introdurre la tripartizione sociologica della disabilità, che utilizza termini ormai in disuso come quello di Handicap, ai soli fini di definire la fenomenologia della disabilità.

La triade qui esaminata è quella composta da Alterazione, Limitazione ed Handicap (Di Santo,2013;59) i quali sono in stretta connessione tra loro a formare la multidimensionalità propria del concetto di disabilità.

 Il primo termine si intende come una difformità rispetto alle proprietà naturali; se usato in modo figurato esprime il sentimento dell’irritazione e della rabbia.

Un individuo può presentare un’alterazione psichica e/o fisica rispetto ad una condizione iniziale, da qui un significato di cambiamento e degenerazione di un equilibrio.

 La differenza è il concetto associato all’alterazione; in tale accezione l’altro è il diverso, ovvero il disabile, in quanto non rappresenta la normalità comunemente attesa.

Altro componente della triade è il limite.

 In qualsiasi contesto spazio-temporale l’essere umano si confronta con dei limiti, questi ultimi possono essere quelli naturali, come nel caso dei cambiamenti climatici indotti dalle calamità.

I limiti però, indicano anche le norme e regole costruite nella società stessa (il diritto di voto, il confine stabilito dalla proprietà privata, il limite di velocità con le autovetture…).

Se il confine e la barriera possono essere fonte di restrizioni per l’essere umano, nel contempo hanno la peculiarità di garantirgli un certo margine di sicurezza e libertà.

 In questo ragionamento è lecito domandarsi in una società che cosa sia normale, cioè entro i limiti, e cosa invece non lo sia, ovvero vada fuori dalle barriere prestabilite.

 È proprio questo concetto di limite che solca la linea di demarcazione tra quello che è accettabile, incluso tra noi in relazione all’altro (il diverso o il disabile), il quale risulta escluso da qualsivoglia comunità. Ad esempio tempi storici passati dimostrano diverse reazioni della società alle disabilità; oggi si conoscono soltanto alcune modalità di abbandono e di eliminazione della civiltà greco-romana riguardo le deformità congenite corporee, che nel costume e nei valori dell’epoca erano considerate caratteristiche repellenti e abiette (Scianchi,2012).

Per comprendere il presente è necessario indagare quali modi di intendere la disabilità hanno condizionato il passato e quali orientamenti socioculturali hanno caratterizzato l’agire dei popoli. Senza riferirsi ad una retorica che intenda semplicisticamente non cadere negli errori del passato, si può considerare questa parentesi storica e sociale come una prospettiva che consente di capire l’humus culturale in cui si innescano alcune pratiche sociali ancora presenti nelle società attuali[6] .

Secondo quest’ottica ciò che appare diverso da Noi[7] viene relegato in un apposito spazio, possibilmente lontano dalla nostra vista.

Considerando che l’attore sociale opera in un contesto di relazioni, le sue azioni saranno inevitabilmente costruite, e appunto, delimitate da una serie di regole e norme che ne stabiliscono il raggio di competenza.

Ai fini di una maggior comprensione della disabilità, è necessario considerare la violenza simbolica, quel concetto di pratica di dominio misconosciuta teorizzata da Bourdieu (Scianchi,2012).

Il termine misconosciuto è dovuto al fatto che tale violenza non è socialmente riconosciuta, l’esercizio della violenza è un dato a priori, che non presuppone alcuna attività di riflessione critica e che gli attori sociali continuano ad esercitare in quanto prassi comune e consolidata in un determinato contesto sociale.

Un fenomeno complesso, quello della disabilità, il quale, nella società odierna, anche secondo un approccio medico, è il riflesso dell’interazione tra il corpo della persona e la società in cui essa stessa vive. Una condizione dai molteplici aspetti si presta dunque a diversi livelli di analisi, come indicato dal modello multidimensionale sociologico della disabilità. Nonostante i limiti, che saranno evidenziati nelle versioni successive, questa classificazione inizia a porre l’enfasi “sull’essere sociale” rispetto all’ “essere patologico” dell’individuo; formalmente in Italia la L.104/1992[8]  recepisce tali formulazioni ravvisando la necessità di una tutela delle istituzioni riguardo il fenomeno sociale della disabilità (Scianchi,2012;231).

Tale attenzione si ravvisa però già Costituzione italiana del 1946, nei dettami dell’art. 2[9]  e dell’art.32 comma 1, in quest’ultimo la tutela della salute è riconosciuto come un diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti (Di Santo,2013;94).

 Nel processo di marginalizzazione non agisce causalmente e necessariamente una condizione di menomazione fisica e psichica di origine anatomica e fisiologica.

La nozione sociologica di Handicap si riferisce alla pratica dell’esclusione e dell’emarginazione della comunità verso un soggetto diverso; la scomparsa graduale e progressiva di questo termine nella letteratura scientifica internazionale[10] vuole forse nascondere l’esistenza di tali processi di stigmatizzazione? Ancor sui limiti inerenti la società e i processi di esclusione e facilitazione, è necessario specificare che il termine istituzione sociale in una declinazione sociologica, coincide con i modelli di comportamento in generale delle organizzazioni e degli apparati.

Questo termine, per esprimersi pienamente necessita della presenza di norme che delimitano la sfera d’azione dei suoi componenti.  In generale le forme dell’istituzione intese come azione, danno luogo, appunto, a sistema d’azione (Reimann,1953).

In tal senso l’istituzione è l’impianto di regole che permette l’organizzazione di risorse umane e materiali e può riferirsi anche alle agenzie di socializzazione quali famiglia, scuola, mass-media e servizi sanitari (Di Santo,2013;102); l’istituzione in una società civile, è ben rappresentata anche dal suo ordinamento giuridico.

Quale è dunque il concetto di normalità, imprescindibilmente legato a quello di norma, nelle pratiche sociali umane di una società, la quale, attraverso l’operato delle sue istituzioni, si proietta sui cittadini, e a cui essi stessi si rivolgono idealmente (alla norma) per rivendicare i loro diritti?

La normalità è comunque non solo prodotta dalla norma, ma è anche la normalità stessa a produrre le norme giuridiche, esse sono espressione e conseguenza della normalità.

Quest’ultima, in varie declinazioni sociologiche, è indagata dal filosofo Foucault in numerose sue opere.

L’autore francese, infatti, intende la normalità esclusivamente come il prodotto di una costruzione culturale, sociale o storica (Siniscalchi:14).

 Il potere regolamenta gli spazi, le abitudini i comportamenti e crea gerarchie. Ne consegue che la normalità è il prodotto di una norma.

 L’ottica che caratterizza il pensiero dell’autore si caratterizza per la corrispondenza tra normalità e giudizio; lo stesso è solitamente espresso da coloro che si ergono dietro un quasi invalicabile muro di conoscenza e sapere (ad esempio, tutti i tipi di sapere scientifico).

Eppure, secondo l’autore francese in natura non esiste un concetto di normalità (e anche di anormalità) a priori; tutto è un costrutto sociale e culturale, infatti “…La norma non è un principio di intelligibilità; è un elemento a partire dal quale un determinato esercizio del potere si trova fondato e legittimato. […] La norma porta con sé, al tempo stesso, un principio di designazione e un principio di correzione. La norma non ha per funzione quella di escludere, di respingere. Al contrario, essa è sempre legata a una tecnica positiva di intervento e di trasformazione, a una sorta di progetto normativo” (Focault,2000;52-53).

Lo studioso francese asserisce anche che la funzione della norma, (paragonabile a quella di un modello), è quella di gerarchizzare, escludere, paragonare o differenziare per poter stabilire e decidere cosa sia normale o cosa no, in una determinata società e in un dato momento storico.

Il processo di normalizzazione descritto da Foucault assolve tale poliedriche funzioni e si snoda in vari ambiti del sapere. In tal senso, dunque, la norma altro non è che l’espressione di un potere (Siniscalchi, 2007:18).

L’handicap, inteso in un’accezione sociologica, comprende il significato dell’etichetta attribuita al diverso, in cui emerge palesemente il limite costruito dalle relazioni umane sia in ambiti formali, sia informali. L’autore Di Santo insiste a voler utilizzare il termine handicap, che seppur in disuso, rappresenta efficacemente il fatto che “la situazione di svantaggio sociale non nasce da una condizione patologica bensì socio culturale. L’Handicap è dunque lo stigma, il marchio infuocato che viene affisso dalla società agli individui considerati diversi. E per questo la vittima non viene sostenuta, aiutata, facilitata, bensì estromessa dal contesto di vita” (2013;128).

[1] Sociologicamente tale concetto è sviluppato da Ardigò( 1997) e successivamente da Cipolla(2005), il quadrilatero di Ardigò è composto dall’ interazione di quattro elementi: la natura esterna  ovvero l’ambiente fisico in genere rispetto al sistema sociale; il sistema sociale, cioè la rete di comunicazione tra individui con le sue peculiari caratteristiche; la persona come soggetto, tra l’Io (ego) e il Social self (Me); la natura interna ovvero il corpo come entità biologica a partire dal patrimonio genetico. I successivi sviluppi di tale impostazione rilevano come emergano due rappresentazioni della malattia, una legata al sapere medico e una come espressione soggettiva del malato nel suo mondo vitale. Gli stili di vita, passando per la stratificazione sociale incontrano la salute nella società di riferimento, la natura esterna viene definita ambiente e interagisce con il sistema sociale, inteso anche organizzazione delle cure in sanità, il soggetto è l’attore nel processo di cura e terapia. La connessione è tra i livelli di analisi sociologica micro, macro e meso. Sulla scorta di queste considerazioni Giarelli elabora il modello correlazionale di sistema della salute (2003), una struttura composta da interconnessioni analitiche dette multidimensionali che oltre ad essere utile per l’analisi comparativa di un sistema sanitario fornisce prospettive che vanno oltre quest’ultimo (Di Santo,2013;31-32-33).

[2] La totalità delle esperienze di malattia sono essenzialmente semantiche, secondo tale orientamento il malato cercherà dei modelli esplicativi nella sua cultura per comprenderla, costruiti in base alle reti semantiche della malattia nel suo contesto sociale. L’approccio clinico si basa allora su un dialogo ermeneutico tra due universi di significato attraverso un processo empatico tra medico e paziente (Giarelli, Venneri,2012;272).

[3] Psichiatra e antropologo della Harvard Medical School, è considerato il punto di riferimento per l’approccio della Medicina Narrativa.

[4]   Secondo Goffman (2003) ed il filone dell’interazionismo simbolico (Mead), la relazione sociale è parte fondamentale della costruzione del sé; sotto tale prospettiva, la norma assume la forma di un modello o di un ideale costruito e connotato socialmente e storicamente. Le percezioni e le rappresentazioni del diverso assumono i connotati dello stigma, secondo cui si attribuisce un significato dispregiativo e negativo ad una determinata formazione sociale (o ad un individuo) che finisce per connotarne l’intera esistenza. Goffman divide lo stigma in tre tipologie: le deformazioni fisiche, gli aspetti criticabili del carattere (passioni sfrenate, disonestà, mancanza di volontà…), le credenze dogmatiche legate alla tribù, al concetto di razza e di nazione.  La conoscenza di questi aspetti, per l’autore, deriva dalle conoscenze sulle malattie mentali, sulle condanne penali, sull’uso abituale di sostanze illecite; sul comportamento politico radicale e altro.

[5] L’autore elabora la combinatoria DIS, riprendendo autori quali Hoffman e Twaddle, la quale rappresenta sette possibilità dall’incontro della triade della malattia. Tale modello è utile per analizzare diverse situazioni patologiche, le varie dimensioni della malattia e i tre punti di vista principali, del malato, del medico e della società (Giarelli, Venneri,2007).

[6] Ai primordi del ventesimo secolo, la nascita dei test mentali negli Stati Uniti si accompagnava alla generazione di un nuovo tipo di persona: il moron (dal greco moros che si traduce con stupido, che corrisponde all’inglese feeble mindeness, ovvero debolezza mentale.) (Medeghini, 2013:180).

La pratica dei test mentali alimentò la decadenza del primato di autorità degli istituti per deboli di mente; nell’America degli anni quaranta si originarono nuove modalità di vita per i disabili intellettivi, come l’inserimento nelle comunità e nelle classi speciali all’interno delle scuole pubbliche. Le stesse classificazioni subirono delle trasformazioni e si allargarono i confini spaziali in cui poter scorgere tali difficoltà.  I test furono infatti somministrati ai carcerati, alle prostitute, agli studenti ed ai poveri, nell’ottica dell’ampliamento della definizione di disabili (atto ad includere una moltitudine di categorie sociali tra loro diverse).

 La debolezza mentale, unitamente alle circostanze ambientali, era identificata come causa della criminalità ed era ereditaria. A tale scopo, furono eseguiti test su una moltitudine di detenuti al fine di trarre tale conclusione. L’etichetta del deviante associata al ritardo mentale era dunque compiuta.

L’utilizzo delle valutazioni di test mentali servirono da supporto per campagne di sensibilizzazione pubblica connesse a temi quali l’alcolismo, la povertà, la criminalità. Il ritardo mentale si manifestava dunque come un problema sociale.

Nonostante il fatto che Binet e Simon avessero escluso l’eziologia e il trattamento nell’elaborazione dei test in esame, riferendosi esclusivamente ad una misurazione dello stato mentale attuale dei soggetti, i test stessi finirono per essere associati a questioni di ereditarietà e si adottarono leggi sulla sterilizzazione e sulla segregazione per i deboli di mente.

L’origine dei suddetti test si verifica agli inizi del ‘900 allorquando il Ministro dell’educazione francese intese stabilire una distinzione tra bambini normodotati e non, ai fini di pianificare una tipologia di educazione differenziata.

Binet e Simon svilupparono dunque il primo strumento di misurazione quantitativa dell’intelligenza umana: una scala che prendeva il nome dai due suddetti autori. Nel corso del tempo tale metodologia ha subito numerose modifiche e oggi il test utilizzato in clinica e nella ricerca è lo Standford-Binet. Frequentemente viene utilizzato anche il WISC-r (Weschler Intelligence Scale for children-Revisited). Grazie a tali strumenti è possibile identificare il livello di intelligenza globale dell’individuo, tramite una scala numerica che fissa il limite della norma a 69, fino ad arrivare all’eccellenza con un intervallo che parte da 130 e prosegue oltre. Tali dati sono confrontati con parametri statistici rappresentanti la norma, e si identifica il grado di deviazione evidenziato dalle prove effettuate rispetto ai risultati raggiungibili nella media di una data popolazione.

 La definizione oggi comunemente accettata di ritardo mentale nella comunità scientifica e medica è quella fornita dall’ICD-10(Classificazione Internazionale delle malattie, OMS): “Il ritardo mentale è una condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali.” Bisogna necessariamente ricordare che tale tipologia di classificazione risente delle differenze culturali in cui è stata prodotta e probabilmente non sempre è possibile applicare le definizioni in popolazioni dalle culture diverse. Così come il DSM V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Associazione Psichiatri Americani,2013) è un altro prodotto della cultura americana che solitamente è utilizzato nell’ambito clinico della diagnosi.

 La teoria dell’identità sociale sviluppata da Tajfel (1981) afferma che gran parte di quella individuale deriva dalle appartenenze a gruppi sociali (famiglia, genere, etnia..), la costruzione di tale identità si origina dal confronto con altri gruppi o categorie, nasce dalla negoziazione di significati e dalla comunicazione con gli altri. In genere si sovrastimano le capacità del proprio gruppo di appartenenza e si sottostimano e amplificano le differenze con gli altri. Secondo Moscovici (1982) le rappresentazioni sociali forniscono ordine nel mondo degli individui, l’altro inteso come colui che non si conosce porta a un lavoro cognitivo nel singolo fatto di dissonanze, emozioni, stereotipi che avviene tramite il processo di ancoraggio, questo consiste nella categorizzazione e nella classificazione, ai fini di ricostruire la percezione del nuovo con concetti familiari.

Altro processo elaborato da Moscovici è l’oggettivazione, in cui si attribuiscono a concetti astratti (es. la paura del disabile) qualcosa che esiste in natura, di fisico. La cultura esterna modifica continuamente i nostri pensieri (Inghilleri,2009;19-20).

[8] La principale legge è la 104/1992 che attiene all’assistenza, all’integrazione sociale ed ai diritti delle persone handicappate. La piena dignità e partecipazione alla vita civile, così come tutti i diritti che ne derivano, sono previsti da questa legge, così come il diritto all’istruzione e alla cultura.

L’art. 3 della legge citata così definisce la persona disabile: “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

La nozione di handicap è legata alla menomazione in rapporto di causalità lineare ed è mancante di riferimenti all’ambiente e alla comunità in cui il soggetto svolge la sua esistenza.

Il concetto espresso di differenziazione tra handicap ed handicap grave non ha visto la predisposizione di un sistema metodologico di valutazione che possa accertarne efficacemente l’esistenza.

Si ricorda al riguardo la proposta dell’Osservatorio per i diritti delle persone con disabilità, recepita con il D.P.R. 4 ottobre 2013 (Adozione del programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità), in cui si ribadisce il concetto secondo cui la piena uguaglianza di diritti umani accomuna la totalità della popolazione, disabili inclusi. Tale programma di azione, proposto dall’Osservatorio nazionale di cui sopra, si articola in 7 linee di intervento al fine di realizzare i contenuti della Convenzione Onu (Treaty document, Italia Onu,2102).

[9]  “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il principio personalista qui espresso pone ai massimi vertici del nostro ordinamento giuridico i valori della persona umana come individuo e come costituente essenziale della società, nessuna libertà collettiva prescinde dalle libertà dei singoli (principio pluralista); il principio solidarista è rintracciabile nel dovere di operare a vantaggio della società, si passa dal ruolo di persona a quello di cittadino responsabile. (www.comune.bologna.it)

[10] La Classificazione Internazionale del funzionamento della salute e della disabilità del 2001 dell’Oms ricerca un linguaggio neutrale ed elimina la parola handicap, precedentemente descritta nella classificazione internazionale del 1980. La visione corrisponde al modello bio psico sociale, in cui la disabilità è in stretta relazione con l’ambiente sociale di riferimento.

Il testo intende fornire una prospettiva delle diverse componenti della salute a livello biologico, individuale e sociale (ICF,2001).

PER SAPERNE DI PIU’:

Le rappresentazioni mediali della disabilità

Pubblicato in: Sociologia dei processi Culturali

Giovani e identità postmoderne-Abstract

wp-image-1182861680In questa tesi l’obbiettivo è descrivere la dimensione sociale e relazionale dell’identità prendendo come esempio un disagio giovanile quale il fenomeno sociale dell’anoressia. Partendo dal concetto d’identità ho voluto fornire una descrizione sia sociale che individuale, utilizzando il corpo come metafora dei cambiamenti nella società contemporanea, il fenomeno dell’anoressia rappresentato dai media nella lente dei giovani è visto come un’identità in perenne costruzione composta da una dimensione spirituale dove la ricerca di significato esistenziale guida l’agire del singolo, il corpo è il linguaggio usato per comunicare con l’esterno l’intera esistenza è votata all’adorazione di Ana, la divinità da loro creata. Nella dimensione introspettiva e psicologica si ricerca un senso di appartenenza, l’identità è ambigua, la maschera che indossano questi giovani è orientata al senso estetico, prevale un’eccessivo bisogno di piacere agli altri e di omologarsi a modelli culturali dominanti. Nella dimensione estetica la comunicazione mediale degli artefatti culturali incide sulla costruzione del se, le pratiche dei gruppi disagiati sono espressione di sogni immagini e desideri che si muovono nel web mettendo in mostra aspirazioni ideali, come in questo caso, la magrezza estrema.

Consulta la tesi integrale su Tesi on line

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Pubblicato in: Scienza, Medicina e dintorni

“L’ipertensione in un giorno”: educare alla prevenzione

Bagno di folla il 17 Maggio 2011 nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma: in mattinata si è svolto il convegnoL’ipertensione in un giorno in occasione della Giornata Mondiale di prevenzione, diagnosi e cura di questa così diffusa e insidiosa patologia.

L’iniziativa è stata realizzata grazie agli studenti della facoltà di Medicina I, in collaborazione con la Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa e gli Istituti di Santa Maria in Aquiro. Dopo i saluti del rettore, il convegno è stato moderato dal professor Giuseppe Germanò, ordinario di Medicina Interna presso il Policlinico Umberto I all’Università La Sapienza, che ha seguito anche le due precedenti edizioni.

Nel primo dibattito scientifico sono stati affrontati i fattori che incrementano il rischio di malattie cardiovascolari e forniti i consigli adatti per condurre uno stile di vita sano, attraverso un’equilibrata scelta dell’alimentazione: la dieta mediterranea. I giornalisti Roberto Gervaso e Paolo Graldi hanno animato la seconda sessione insieme agli esperti del settore, dedicato alle spie e ai sintomi dell’ipertensione e al come prevenirne l’insorgenza.

Grande successo di adesioni, dalle giovani generazioni di studenti delle varie facoltà della Sapienza, passando per i professionisti (medici, infermieri e psicologi), ai Centri anziani di Ardea, Anzio e Nettuno che hanno evidenziato un bisogno di partecipazione e di inclusione inespresso per diventare protagonisti attivi nella costruzione consapevole del proprio benessere, fisico, psicologico e anche ambientale.

L’importanza della discussione diffusa di tematiche sociali, educative e sanitarie diventa oggi un requisito essenziale per il benessere del singolo e della comunità. L’informazione e la prevenzione nei vari ambiti permettono all’uomo di saper fare e saper essere nella collettività, contribuendo positivamente e attivamente alla vita della società civile. L’istituzione che partecipa e diffonde la cultura dell’informazione veicola messaggi importanti per i cittadini, attore e spettatore al contempo di una società che cambia e su di essa si riflette: è lo specchio di una relazione in continua evoluzione.

La partecipazione istituzionale è fondamentale per lo sviluppo di una cultura della salute: attraverso l’esempio, le giovani generazioni voltano lo sguardo al passato e scoprono il valore dell’esperienza, si preparano con solidità ad intraprendere il cammino del futuro.

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Pubblicato in: Libri e recensioni

Eichberg-Mellone: identità di una nazione. “Il domani appartiene al noi”

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Oggi il senso di appartenza a quel sentimento che all’unisono riunisce gli animi di una nazione, che nutre l’antico legame dell’uomo con il suo territorio, con le sue tradizioni e con il proprio passato si affievolisce e appare alla stregua di uno sbiadito ricordo dai contorni sfumati nello scenario globalizzato della metropoli post-moderna.

Quale forma allora assume il disagio identitario italiano e dove fonda le sue radici sociali?La fine delle “Le Grand Recitès” di cui parlaLyotard, e le metanarrazioni sono dunque, dopo il 1989, giunte al capolinea: un treno in corsa che avrebbe dovuto col suo verbo rigorosamente al plurale, attraverso un “ordine nuovo” sia a destra che a sinistra, essere il propulsore di una spinta modernizzatrice e rivoluzionaria per l’intera collettività.Da tale fallimento, l’utopia da grande sogno collettivo paradossalmente si rifugia nel privato: è il tramonto della storia che si racconta al plurale, il “noi” diventa “io”; individualismo, estetica del corpo e autoreferenzialità i protagonisti indiscussi del nostro presente.

La “felicità pubblica” che è il sacrificio per le grandi passioni, idee, risorse ed energie al servizio del bene comune, sorpassa il mero interesse egoismo e nel dono come parte di sé per il vincolo comunitario fornisce una più nobile e ampia visione del mondo.

Il decennio italiano del Sessantotto ha visto un’efferevescenza sociale e rivoluzionaria che si è radicalizzata nel marxismo il quale ha posto come modelli di valori la disaffezione per la nazione e per l’autorità. Con l’avvento del Setttantotto, sul finire degli anni di piombo e dellla violenza si è aperta la strada della ricerca del disimpegno e la televisone commercialesi è posta quale catalizzatrice dell’esigenza di spensieratezza e divertimento diffuso nella società italiana. L’industria culturale dei media, principale strumento di socializzazione sin dalla sua nascita, ha raggiunto per qualità di contenuti e messaggi livelli bassissimi. In questo nuovo paesaggio sociale, il passaggio di status conseguente per l’italiano medio è stato da cittadino a consumatore.

Come un malato sotto anestesia in attesa dell’operazione che lo conduca alla guarigione, questa è oggi la politica. Non è l’etica pubblica il suo dominio, ma la corrente del soggettivismo estetico, in una continua ricerca affannata di distrazioni dai reali problemi della nazione.

Una narcotizzazione della ragione, una diffusa preferenza per il gossip e le frivolezze ne guidano i passi, mentre l’etica è addormentata tra la braccia di Morfeo.

Una spettacolarizzazione che usa vecchi e nuovi media, attrae nuovi figuranti in questo non certo esaltante circo mediatico, nella scena post-moderna un’omologazione di stili di vita e consumi, il prodotto mal riuscito dellaglobalizzazione sociale.

Come evitare, dunque, il declino e la deriva sociale?

Attraverso l’educazione, intesa non nel ricercato nozionismo e accumulo di saperi, ma nell’insegnare alle nuove generazioni l’interesse per la storia e per la ricerca della verità, affinchè i giovani non siano senza né padri nè maestri, smarriti nell’attrazione per il potere e la moda, invischiati nella noia e nella violenza; ma depositari di un libero patrimonio della loro tradizione culturale per imparare ad amare sé stessi e il prossimo in un costante impegno quotidiano. Un’esercizio di costruzione della virtù del singolo per una sana convivenza nella società civile.

L’Italia compie 150 anni e F. Eichberg e A. Mellone auspicano nel loro libro “Il Domani appartiene al Noi – 150 passi per uscire dal presentismo”  un’Italia del “Noi” in cuiresponsabilità sia la parola chiave per aprire le porte del futuro.

Il centocinquantesimo passo è la certezza di questa speranza: “un’Italia bella e possibile. L’Italia del Noi.”

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La grande assente dei nostri tempi: la politica

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Mai come oggi il vuoto lasciato nelle nuove generazioni irrompe nello spazio sociale italiano ed europeo.

Un generatore di vecchi cliché in stile retrò richiama alla mente immagini di un passato remoto, il movimento sociale del nazifascismo è ancora in fermento, si muove in silenzio nella massa, fabbrica il suo “soldato politico”: così Giovanni Fasanella e Antonella Grippo ne “L’orda nera” descrivono la cenere sopita nell’animo della nuova destra che si infiamma, nello scenario globalizzato e cosmopolita odierno

Quali radici culturali, quali bisogni reali, quali idee e motivazioni attirano i giovani che si riconoscono in questi movimenti?

Sono nelle periferie cittadine, nella metropoli, negli stadi e navigano indisturbati nel web; non si riconoscono nella destra istituzionale, sfidano il mondo con la violenza e tra vecchie tradizioni e bisogno di un “ordine nuovo” odiano la democrazia, il consumismo e l’omologazione, figlie dell’America.

Non è un partito: nasce dal basso, nel disagio delle periferie locali e come un ragno tesse la sua tela lentamente, ma con cura, si annida nei centri sociali, si estende nei punti di aggregazione e nelle associazioni: non l’ideologia il suo cavallo di battaglia, ma le difficoltà quotidiane: il lavoro che manca, l’immigrazione, le speculazioni delle banche, lo sguardo incerto dei giovani al futuro.

Vogliono la giustizia sociale, un sistema di valori economici e morali in cui centrale sia la famiglia, la tutela del lavoro, gli assegni familiari e la previdenza per far rinascere lo Stato sociale.

É una nostalgica rivisitazione del passato o un nuovo fenomeno sociale cui far fronte?

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Pubblicato in: Istruzione e Formazione

Guardare il mondo con gli occhi dei bambini: “La vita al microscopio l’immagine del reale”

Una primavera di colori e fantasia quella dei bambini delle scuole elementari del 145 circolo Anna Magnani di Roma e del Collodi, plesso Leonardo da Vinci di Anzio.

L’atrio della Prima clinica medica del Policlinico Umberto I ha accolto le opere dei piccoli artisti per la seconda edizione de ”La vita al Microscopio, l’immagine del reale” dal 24 Maggio al 1 Giugno 2011, organizzato dagli studenti di Infermieristica, facoltà di Medicina della Sapienza Università di Roma. I bimbi, guidati dalle insegnanti hanno prodotto un elaborato creativo (fotografia) sul mondo che li circonda e hanno sperimentato un primo divertente approccio culturale con la realtà universitaria a sottolineare l’importanza dell’impronta formativa culturale che dovrà caratterizzare i piccoli futuri cittadini.

Il primo premio è andato alle V dell’insegnante Amabile Gargana del Leonardo Da Vinci di Anzio con l’opera “ La formica” il secondo al poster “l’Ape e il fiore” IV D il terzo “Spore in mano” della III C , guidati dalla direttrice del Dipartimento Comunicazione Sonia Sapia del 145 circolo didattico Anna Magnani di Roma. Gli alunni sono stati coinvolti nel progetto sanitario “Indagine clinica sulla prevenzione delle malattie cardiovasolari in età infantile” del prof. Giuseppe Germano, primario di Medicina Interna alla Sapienza e del prof. Martino responsabile del centro per lo studio delle Dislipidemie infantili.

Quanti dettagli sfuggono a noi adulti e quante particolarità e novità scorgono i bambini con lo sguardo proiettato nel loro fantastico mondo del reale.

Tutto è nuovo e sconosciuto, i cinque sensi si attivano per esplorare e conoscere la realtà, circondati dal mondo essi ne sono parte integrante, costruiscono immaginano sognano e vivono un universo sconosciuto ai grandi.

Noi la vogliamo conoscere questa realtà, viaggiare negli infiniti spazi della fantasia e creatività e vedere con la loro stessa lente.

Il nostro compito di educatori, genitori, insegnanti vuole fare di loro uomini e donne pronti ad affrontare il futuro con il giusto bagaglio culturale.

Ma possiamo abbandonare questa visione costrittiva a volte e abbassarci alla loro piccola altezza: libera espressione e creatività allo stato puro, un foglio bianco per riempire gli spazi della fantasia.

Impariamo dai bambini, tendiamogli la mano e lasciamoci guidare nel loro mondo, saranno per noi delle preziose guide.

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Un matrimonio felice… allunga la vita

La conferma di uno studio dell’Università di Pittsburgh: chi porta avanti relazioni sentimentali tormentate, è più soggetto a malattie cardiovascolari.

Da sempre, nel corso dei secoli, le relazioni sentimentali tra uomo e donna sono state fonte di ispirazione primaria per la letteratura.

Decantate dai poeti, descritte dagli scrittori, immaginate e disegnate dagli artisti, l’immaginario collettivo si è lasciato guidare da racconti e immagini a volte utopici,a volte realistici sulla vita amorosa di lui e di lei.

Il cinema e recentemente la televisione hanno ampiamente utilizzato il pathos e la drammatizzazione per far rivivere nei suoi spettatori gli animi dei protagonisti di storie amorose, pacati o tormentati che siano.

Di recente, anche Thomas Kamarck, professore di psicologia biologica nell’Università di Pittsburgh, di recente si è lasciato ispirare nelle sue ricerche, proprio dagli effetti che una relazione amorosa, in particolare quella tra uomo e donna uniti in matrimonio, può provocare a livello di malattie cardiovascolari.

Sulla rivista Psychosomatic medicine, nell’articolo a firma di Nataria Joseph, allieva di Kamarck, è stato illustrato lo studio condotto su 281 pazienti in cura, il cui status era una relazione coniugale o una relazione con un partner.

I pazienti sono stati monitorati per quattro giorni e coloro che hanno riportato relazioni negative e infelici con l’opposto sesso di appartenenza hanno registrato una percentuale di rischio di soffrire di attacco di cuore dell’8,5% rispetto ai fortunati, quelli con interazioni felici.

Relazioni matrimoniali infelici e malattia cardiovascolare: la connessione è stata trovata nella qualità della vita insieme; lo sviluppo di placche nell’arteria carotidea è stato indagato simultaneamente.

Emozioni e sensazioni hanno giocato dunque un ruolo fondamentale nello sviluppo di patologie cardiovascolari, mentre i processi sociali biologici e psicologici hanno influenzato lo stato di salute globale e lo stile di vita.

I limiti della ricerca sono stati evidenziati dallo stesso team di studiosi di Pittsburgh: queste reazioni dell’organismo posso essere state indipendenti dalle relazioni sentimentali.

La ricerca è stata una sezione trasversale in cui i fattori presi in considerazione sono stati l’età il sesso la razza e il livello di educazione.

Pubblicato in: Comunicazione e Società

L’universalità del diritto alla salute

Le problematiche del lavoro e della previdenza per gli immigrati in un seminario di formazione a cura dell’INMP

Nelle giornate dall’1 al 22 Giugno presso l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (INMP) si è svolto un corso di formazione di 4 incontri dal titolo Diritti giurisprudenza e casi pratici in materia di immigrazione promosso dall’Associazione nazionale Avvocato di strada, una ONLUS il cui Presidente è l’avvocato Antonio Mumolo.

L’associazione di volontariato si occupa di tutelare i diritti delle persone senza fissa dimora e le vittime della tratta, sedi e sportelli sono presenti nell’intero territorio nazionale, precisamente nelle città di Ancona, Bari, Bologna, Bolzano, Ferrara, Foggia, Jesi, Macerata, Milano, Modena, Napoli, Padova, Pescara, Piacenza, Reggio Emilia, Roma, Rovigo, Salerno, Taranto, Trieste e Vicenza.

Il secondo incontro, dal titolo Immigrazione e diritto al lavoro, moderato dall’avvocato Teresa Santulli, coordinatrice dello Sportello avvocato di strada di Roma, ha introdotto le problematiche connesse al riconoscimento giudiziale dei diritti dei lavoratori stranieri che non godono di una contrattazione regolare nel rapporto di lavoro.

Molto spesso, nella realtà della vita quotidiana, gli avvocati dell’associazione si trovano a dover affrontare situazioni gravose dal punto di vista giudiziario e sociale: la legge viene disattesa e le problematiche legali si intrecciano con aspetti sociali e culturali che esigono un’attenta e delicata lettura, per poter venire incontro a situazioni in cui la richiesta di aiuto non sempre è facilmente decodificabile per gli operatori degli sportelli legali.

Alcuni casi pratici in materia di diritti e immigrazione sono quelli raccontati dall’avvocato Alessandro Lodato, che nel suo intervento, si è occupato dell’iniquità di trattamento dei cittadini extracomunitari in materia di invalidità civile e indennità di accompagnamento.

In breve per ottenere trattamenti economici in Italia, che sono erogati dall’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) gli stranieri extracomunitari fino al 2008 dovevano essere titolari di una carta di soggiorno sostituita in seguito dal permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

Coloro ai quali era stata accertata l’invalidità civile e il diritto all’indennità di accompagnamento, hanno difficoltà ad accedere ai trattamenti economici poiché l’INPS afferma che i diritti soggettivi in materia di servizi sociali e dunque l’assegno sociale vengono concessi agli stranieri titolari di carta di soggiorno e alle condizioni previste dalla legislazione stessa, compresa la titolarità di un reddito.

Secondo l’avvocato, varie volte si è pronunciata la Corte Costituzionale a partire dal 2008, affermando che la norma su cui si basa l’INPS è illegittima nel momento in cui esclude l’indennità di accompagnamento per gli extracomunitari, poiché sprovvisti di carta di soggiorno CE e dei requisiti di reddito, sempre tenendo conto del principio di ragionevolezza che deve orientare il legislatore.

La Corte afferma che è discriminatoria la pretesa legislativa che impone allo straniero un requisito che non è previsto per i cittadini italiani, tenendo in considerazione l’universalità del diritto alla salute e intendendo per tale anche i diritti ai rimedi possibili: non si possono negare i diritti fondamentali della persona.

Gli stranieri titolari di carta di soggiorno o permesso di soggiorno sono equiparabili ai cittadini italiani nella fruizione delle provvidenze e delle prestazioni di assistenza sociale già dal 1998.

Nonostante ciò l’INPS continua a chiedere il permesso di soggiorno CE per le prestazioni in materia d’invalidità civile agli stranieri extracomunitari.

La casistica in giurisprudenza è molto ampia: Il Tribunale ordinario di Perugia ha rifiutato la domanda del l’indennità di frequenza ad uno straniero extracomunitario per il figlio minore (istituita con legge 289/1990), volta ad assicurare la cura la riabilitazione e l’istruzione per i minori invalidi civili come recitano gli articoli della costituzione 30,31,34,38 sulla Tutela dell’Infanzia.

La domanda è stata respinta poiché il Tribunale ritiene sia indispensabile per essere titolari di tale diritto il requisito del soggiorno in Italia da almeno 5 anni, al di là di del semplice possesso della carta di lungo soggiorno CE e dei requisiti di reddito.

Nella Capitale si presenta un altro scenario: il Tribunale di Roma nel 2010 riconosce l’indennità di accompagnamento e la pensione d’invalidità a moglie e figli di un cittadino extracomunitario soggiornante nel territorio italiano dal 1990; la Curia riconosce la prestazione per l’invalidità a partire dal mese successivo alla domanda di diritto alla prestazione, avvenuta prima della concessione della carta di soggiorno.

Dunque la burocrazia e la discrezionalità di interpretazioni dei vari Tribunali in materia di diritti e invalidità civile, a volte possono rivelarsi un ostacolo per i cittadini stranieri che versano in situazioni di infermità, fermo restando che questa grave situazione di salute debba essere reale e accertata dagli organi competenti.

Pubblicato in: Comunicazione e Società

Il tardo moderno: identità in costruzione

Nel ventesimo secolo il dibattito sociologico si concentra sulla definizione del periodo storico attuale che l’umanità vive.

É la modernità terminata, assolvendo i compiti che si era proposta, e si distingue nettamente come fase da quella che molti autori chiamano società postmoderna?
O ancora si può parlare di una radicalizzazione della modernità?

Gli autori che si riconoscono nella concezione postmoderna risentono degli influssi culturali francesi e nordamericani.

Questi sociologi e filosofi rifiutano le analisi macrosociologiche e si dedicano alla visione del mondo partendo dal punto di vista del singolo individuo.

L’economia capitalista si riflette sulla società e sulle condotte della persona, quest’ultima, quasi ne segue gli andamenti e li imita.

L’influenza dei mass-media è determinante nella vita quotidiana in quanto offre visibilità geografiche che unificano la percezione di uguaglianza delle varie culture lontane e diverse.

Gli individui agiscono sulla base di queste conoscenze mediali e si fanno un’idea della realtà circostante in base ad essi.

Estratto dal Brano Giovani  e identità postmoderne (2009) Consulta la tesi integrale dell’autrice

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Dentro una società post moderna?

benv.

Flavia Anastasi autrice del Blog “Libero Pensiero” nasce a Roma il 7 Maggio 1982; appassionata sin dall’ infanzia alla lettura, in età adulta si dedica allo studio universitario, dapprima consegue il titolo di Dottore in Scienze e tecnologie della Comunicazione”(dal 2006 al 2010), presso l’ Università La Sapienza di Roma, alternando la vita di studentessa, lavoratrice e giovane mamma; in seguito conclude l’iter formativo, sempre presso la medesima Università, con una Laurea Magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica (interfacoltà tra Farmacia e medicina,comunicazione e ricerca sociale) con la votazione di 110/110 (dal 2013 al 2016), redigendo un tesi dal titolo Prospettive sociologiche nei disturbi dello spettro autistico”  in materia di Sociologia della Salute e della Medicina. Il tutto si svolge mentre lavora part-time nel ruolo di “Hostess” presso la conosciuta catena di fast-food Mc Donalds Italy già dal lontano 2002 fino al recente 2016, che gli ha permesso (non senza fatica) di pagarsi gli studi universitari.

La tesi di laurea si classifica prima nella graduatoria del bando di concorso della Sapienza Università di Roma, nell’anno 2016, per l’assegnazione di premi a dissertazioni nell’ambito della disabilità.(-Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale).

(Collegamento al Coris Sapienza da twitter)

Inoltre la tesi è pubblicata nella Collana Comunicazione e Salute diretta dalla Prof.ssa Michaela Liuccio, dalla Casa editrice Aracne di Roma nel Giugno 2017

Durante gli studi si dedica all’organizzazione di eventi, con altri studenti e docenti, tramite le iniziative socioculturali de “La Sapienza”, su tematiche quali la prevenzione dell’ipertensione arteriosa, il contrasto alla pedofilia, la scienza per i bambini attraverso la fotografia, il genere femminile.

Mentre si dedica allo studio accademico pubblica alcuni articoli su temi quali sanità, salute, attualità e recensioni di libri presso alcune testate giornalistiche universitarie e non, on line ( Zenit Città e Regione, Agoravox) all’insegna del citizen journalism.

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Vaccinarsi contro il tumore

LA VACCINAZIONE, PRATICA DIFFUSA SIN DAL SECOLO SCORSO, HA DEBELLATO NEL CORSO DEL TEMPO, MOLTE MALATTIE INFETTIVE PERICOLOSE PER L’ESSERE UMANO. GLI ULTIMI SVILUPPI DELLA TECNOLOGIA MEDICA E CELLULARE SONO GIUNTI ALLA PREVENZIONE DEL CANCRO CAUSATO DAL VIRUS DEL PAPILLOMA UMANO, ATTRAVERSO L’IMMUNIZZAZIONE TRAMITE VACCINO. (VLPS)

Già nel lontano V sec. a.c. Tucidide descriveva gli effetti di un epidemia infettiva, la peste, che colpiva Atene nel 430 a.c. circa, osservando in occasizione dell’evento che “Il male non colpisce mai due volte: o almeno, l’eventuale ricaduta non è mai letale”. In questa semplice affermazione, lo storico esplicitava l’effetto dell’immunizzazione dopo aver contratto il virus, evidenziando che l’organismo umano che aveva in sè il patogeno era in grado, in alcuni casi, di combatterlo autonomamente e diventava immune allo stesso.

La letteratura antica greca e romana del I sec. d.c., attraverso le opere dello scrittore romano Celso, descriveva l’infezione da Papilloma Virus,causa di lesioni in soggetti omosessuali o con abitudini sessuali promiscue.

L’HPV era una malattia infettiva, sessualmente trasmissibile, e prematuri erano i tempi per determinare che si trattasse anche di un agente patogeno infettivo in grado di causare il cancro nelle vie genitali dell’essere umano.

Un momento storico decisivo nella storia dei vaccini fu la scoperta di un medico inglese a Berkley, Edward Jenner: nel 1796, lo studioso inoculò su James Phipps, un bambino di otto anno sano, il virus del vaiolo e scoprì che il contatto con l’agente patogeno poteva rendere il soggetto immune dal contagio. Le sue osservazioni empiriche iniziarono dall’immunità naturale che mostravano i mungitori di vacche affette da malattia con pustole; questi ultimi, infatti, non erano colpiti dal virus e gli resistevano; tale pratica scoperta dal medico inglese, consisteva nell’utilizzare la virulenza del patogeno per sviluppare l’immunità.

L’era dei vaccini ebbe inizio nella metà del ventesimo secolo, nel corso di un periodo in cui alcune malattie infettive erano portartrici di morte e disabilità in un’ampissima parte della popolazione mondiale.

Il vaiolo, il morbillo, la poliomenite erano infezioni letali. Nel millenovecento si contavano circa 400 milioni di decessi causati dal virus del vaiolo in tutto il mondo; solo a partire dagli anni settanta dello scorso secolo avvenne lo sradicamento di questo patogeno, grazie all’introduzione della vaccinazione di massa ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Questa pratica clinica, ad esempio, permetteva nell’arco temporale di un decennio, la scomparsa nella popolazione, delle epidemie da vaiolo in Occidente. Il virus del Papilloma umano, invece, dovrà attendere ancora molto tempo per essere perfettamente identificato dagli scienziati; l’HPV non era oggetto di studi di oncologia virale poiché non era coltivabile in vitro e si replicava soltanto in cellule differenziate.

A partire dalla seconda metà del millenovecento però, le scoperte della biologia molecolare in campo scientifico e medico, ampliarono notevolemente la possibilità di esplorare le cellule epiteliali colpite da lesioni cancerose, nella mucosa della cervice uterina.
Questi trionfi della medicina hanno cambiato l’aspettativa di vita della popolazione mondiale e i successivi sviluppi della tecnologia in microbiologia nel proseguo degli anni, hanno incoraggiato l’opinione pubblica e la massa a nutrire ottimimistiche speranze nelle capacità preventive della scienza biologica e medica.

Sin dagli anni ’70 del secolo scorso il medico tedesco H. Zur Hausen concentrava i suoi studi scientifici sull’ipotesi di una correlazione diretta tra virus del Papilloma Umano e l’insorgenza di lesioni neoplastiche alla cervice dell’utero nella donna. I suoi progressi scientifici permettevano di stabilire un nesso di causalità tra i tipi 16 e 18 del virus e il cancro della cervice uterina; in alcuni casi si rilevava la presenza di genoma nelle cellule neoplastiche integrate in cromosomi.

A partire dal 2006 iniziava la produzione di un vaccino ad hoc per la prevenzione del tumore al collo dell’utero, costituito da particelle simili al virus, commercializzato in Italia già dall’anno successivo.

Nel 2008 lo studioso tedesco veniva insignito del premio Nobel per la medicina e la fisiologia, grazie a questa innovativa scoperta. La classe del Papilloma Virus ad alto potere oncogeno (circa 30 ceppi) possedeva la capacità di trasformare le cellule sane in tumorali, si scopriva l’esistenza di circa 200 tipi di virus, ognuno dei quali veniva identificato con un numero; il 70% dei tumori alla cervice uterina erano attribuibili ai tipi 16 e 18; i tipi 6 e 11 erano responsabili del 90% di condilomi e verruche dell’apparato genitale.

Il virus non poteva essere combattuto da nessun farmaco, per questo necessitava di una robusta strategia preventiva, applicabile tramite la pratica clinica della vaccinazione; si svilupparono dunque vaccini a sub-unità, senza la presenza di patogeni vivi, da somministrare in 3 dosi nel corso di un anno.

L’American Cancer Society college of Obstretician and Ginecologist US Prevention Task force raccomandava l’inizio del papanicolaus test (pap-test) a partire dai 3 anni successivi dall’inizio dell’attività sessuale e comunque dopo i i 21 anni.

L’esame citologico del suddetto test era estremamente importante per identificare precocemente le lesioni precancerose e la presenza di infezione da HPV ad alto rischio oncogeno nelle giovani donne, una corretta prevenzione si attuava con il pap test da effettuare ogni triennio.

La ricerca sui vaccini anti HPV consisteva nello sviluppare preparazioni con proteine strutturali capsidiche L1 ed L2. Il genoma del virus era infatti circondato da un guscio proteico, il capside, composto da circa trecentosessanta copie di un proteina L1 e da dodici copie di proteina L2; la struttura del capside si presentava modulare, con capsomeri che si ripetevano; le proteine L1 ed L2 si autoassemblavano per formare il capside, con una forma di icosaedro, dunque il genoma era una singola molecola di dna circolare a doppia elica divisa in 6 geni E ( early )per la promozione della replicazione cellulare, e due geni L (late) che codificavano per due proteine strutturali L1 e L2.

L’oncoproteina E 6 del capside virale del papilloma virus di tipo 18 era la responsabile, insieme ad E 7, dell’induzione in trasformazione cellulare maligna e del conseguente cancro alla cervice uterina.

In seguito all’interazione di E6 con P53 (antigene tumorale, fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare con funzione di soppressione tumorale) quest’ultima veniva inibita, (E7 interagiva con Prb) provocando la perdita di controllo del ciclo celluare e apoptosi con successiva trasformazione neoplastica.

La proteina oncogena E 6 nell’HPv ad alto rischio alterava la crescita cellulare tramite i suoi effetti sulla proteina P 53. La ricerca sui vaccini si concentrava sulla preparazione con proteine strutturali L1 ed L2 per determinare la produzione di anticorpi che bloccassero l’infezione virale e l’ingresso del virus nel tratto genitale.

Gli orientamenti clinici erano basati sulla valutazione dell’efficacia dei vaccini cosituiti da Virus Like Particles (VLPS),i quali agivano con l’iperespressione di una sola proteina L1 oppure in co- espressione di L1 e L2. Gli HPV -VPLS avevano la capacità di minare la struttura morfologica dei virioni dell’infezione, provocando una risposta immunitaria con alti livelli di anticorpi neutralizzanti.

Ciò perché gli HPV-VPLS non essendo costruiti con DNA virale non avevano proprietà infettive, né oncogene. Questa tipologia di vaccino era stata studiata sui virus del papilloma orale canino, del coniglio e bovino. Infatti le VLPS L1 si dimostrarono potenti immunogeni per la protezione da infezione virale e conseguenti lesioni.

Si approfondirono anche le reazioni sulle scimmie Rhesus dopo la somministrazione per via intramuscolare di HPV 11 VLPS in aggiunta ad una sostanza adiuvante. L’effetto consisteva in una maggiore produzione di immunoglobuline.

Negli esseri umani i vaccini approvati dalla Food and Drug Administration sono stati Gardasil (prodotto da Merck and co. per la prevenzione di lesione precancerose nei tratti genitali femminili e maschili nei giovani di età dai 9 ai 26 anni causati da HpV di tipi 16 e 18, 6 e 11) nonchè Cervarix (della Glaxosmithkline vaccino bivalente contro i tipi 16 e 18); gli scienziati del National Institute Cancer americano avevano sviluppato in parte, insieme alle due case farmaceutiche, le tecnologie su cui si basavano i sopracitati vaccini.

Il cancro alla cervice uterina rimaneva comunque un nemico temibile; infatti il 30% dei tumori al collo dell’utero non risultava sensibile a quest’ultime immunizzazioni.

Dopo la commercializzazione, l’Advisory committee on immunization pratices (ACIP) negli Stati Uniti raccomandava una serie di indicazioni da seguire per queste due vaccinazioni: a quale età andavano somministrate (dagli undici anni in su, sia maschi che femmine); quali dosi andavano utilizzate e in quale arco temporale; in quali circostanze cliniche non andasse prescritto. Ogni stato americano aveva facoltà di decidere se rendere disponibile o meno la vaccinazione contro l’HPV per i propri ragazzi. I dati del sito Center for disease and control prevention americano riportavano che tra l’elenco delle scuole di ogni ordine e grado degli Stati del Nord america; fin dall’anno 2008 in alcune scuole medie superiori della Colombia, dell’Indiana e della Virginia, era stato distribuito alle ragazze materiale informativo sulla prevenzione dell’HPV.

Il “Journal of Communiy Health”, ultimamente, riportava che nell’anno duemilatredici l’adesione a queste vaccinazioni risultava essere molto bassa tra i giovani, soprattutto in relazione alle classiche pratiche di immunizzazione raccomandate dall’Advisory committe on immunization pratices ( tetano e difteria,meningococco, influenza).

Soltanto poco più della metà delle ragazze tra i 13 e i 17 anni avevano ricevuto l’ultima dose di vaccino contro l’HPV, nei maschi della medesima età il numero delle dosi somministrate scendeva ancora di più. Per gli altri vaccini invece si raggiungeva la quasi totalità delle relative somministrazioni.

Per aumentare l’adesione alla prevenzione del cancro alla cervice uterina e alle zone genitali, una soluzione poteva essere introdurre la pratica clinica stessa all’interno delle scuole. L’età della vaccinazione( dai 9 anni in su) permetteva di avere potenzialmente una risposta più ampia, dato che tutti i giovani di quell’età frequentavano il ciclo scolastico d’obbligo.

La principale preoccupazione era convincere i genitori dei ragazzi a vaccinarsi; infatti, trattandosi di minorenni, la scelta sull’adesione, ricadeva necessariamente su di essi. L’evidenza scientifica risultante dall’indagine effettuata nel Richmond country (Georgia) da L. Gargano dimostrava una bassa sensibilità sull’argomento HPV, da parte dei genitori di alcune scuole elementari e medie prese in considerazione per lo studio condotto.

Il protocollo di studio era stato approvato dall’Emory Institutional review board e voleva conoscere quali fattori psicosociali e demografici influenzassero l’adesione o meno dei genitori dei ragazzi in età da vaccinazione nelle scuole.

Lo sviluppo del questionario che era stato loro somministrato, si basava sulla teoria dell’Health Belief Model (cfr. Becker, 1974, relazione tra prevenzione della salute e grado di minaccia percepita) e intendeva rilevare la percezione, da parte dei genitori dei figli arruolati nello studio, della malattia HPV e le sue conseguenze, gli ostacoli e i benefici alla vaccinazione contro il Virus del Papilloma Umano. Inoltre erano stati attivati nelle scuole medie brevi corsi sul suddetto virus condotti da insegnanti di scienze per i ragazzi e le ragazze. L’invito a partecipare con la compilazione di un questionario, sia on line che telefonico, diede tali risultati: soltanto il 10% dei questionari per i genitori ritornò completamente compilato. Risultava necessaria una maggiore e più incisiva campagna di sensibilizzazione affinchè il pericolo connesso all’infezione da HPV fosse compreso da tutti. Il medico Douglas R. Lowy, a capo del laboratorio di oncologia cellulare presso il National Institute of Cancer degli Stati Uniti, in merito ai due vaccini sopracitati, (Cervarix e Gardasil), affermava che “…dopo il monitoraggio sulla sicurezza dei due vaccini, prima della licenza di commercializzazione, entrambi si sono dimostrati efficaci e sicuri, al pari di tanti altri tipi di vaccini. Essi sono stati usati da milioni di persone negli Stati Uniti e in altri paesi, i problemi più comuni riscontrati sono stati brevi dolori nel sito dell’iniezione. Si sono verificate rare reazioni allergiche. Ci sono state le stesse problematiche comuni ad altre vaccinazioni. I vaccini contro l’HPV non sono stati sufficientemente testati durante il periodo di gravidanza della donna e non dovranno essere somministrati a donne incinte.”
Il “New England Medicine Journal” recentemente riportava che la Merck e co., azienda farmaceutica americana, stava sviluppando una seconda generazione di vaccini contro l’HPV ad alto rischio oncogeno, al fine di offrire una maggiore protezione rispetto al quadrivalente già in commercio (Gardasil, contro l’HPV di tipo 16-18-6-11). Il nuovo vaccino sperimentale era nonavalente, ovvero adatto a prevenire ben nove tipi di infezione virale ( i tipi 31-33-45-52-58 di Papilloma Virus, più i tipi 6-11-16-18). I risultati degli studi clinici ( fase III-IV) riportavano che la protezione da cancro alle vie genitali saliva fino al 97%, considerando che venivano prese in considerazione più tipologie di virus ( contro il 70% del quadrivalente Gardasil). La Food and Drug Administration stava valutando la possibilità di rendere disponibile nel mercato farmaceutico o meno, il nuovo vaccino nonavalente.

Recentemente la ricerca clinica per combattere il tumore nei tratti genitali femminili, si sta orientando anche verso la sperimentazione di vaccini terapeutici, per superare la fase di prevenzione e sperimentare una cura degli individui già affetti e colpiti da lesioni precancerose da Virus del Papilloma Umano di tipo 16.

I ricercatori dell’Arkansas Cancer Research Center University stanno valutando di studiare l’effetto di un vaccino per la regressione delle neoplasie, lesioni intraepiteliali delle cellule nella cervice uterina. Il nuovo vaccino si basa su un frammento sintetico delle proteina E 6 del virus e di un estratto di lievito (Candin) per attivare un’efficace risposta immunitaria che faccia regredire l’avanzamento del tumore.

Gli studi clinici sono nella fase iniziale (fase 1) e i risultati saranno completi alla fine del 2015; ancora ci vorrà del tempo per poter eventualmente affermare l’esistenza di un vaccino, capace di curare ed eliminare il cancro.

Bibliografia e webgrafia.
1. Lisa M. Gargano et all. “ La vaccinazione clinica per gli adolescenti nella scuola in relazione all’approvazione dei genitori” trad.mia (originale dall’inglese: “School located Vaccination clinics for adolescent: correlates of acceptance among parent ) Journal of community Health, Dicembre 2014

2. L. Mariani “L’infezione da HPV: dalla prevenzione all’overtreatment” Ginecologia Oncologica, Istituto Nazionale Tumori Regina Elena, Roma

3. National Institute Cancer, “Papilloma Virus umano: Intervista con il medico Douglas R.” (trad.mia da “Human Papillomavirus (HPV) Vaccines: An Interview with Douglas R. Lowy, M.D.”) 20 Novembre 2014

4. Mayumi Nakagawa, “Un vaccino terapeutico per l’HPV, fase prima dello studio clinico.” (trad.mia da “A Phase I Clinical Trial of an HPV Therapeutic Vaccine”, , Università dell’Arkansas degli Stati Uniti, 18 Settembre 2014

5. New England Journal of Medicine, “Il vaccino Gardasil 9 protegge contro altri tipi di HPV” (trad.mia da “Gardasil 9 Vaccine Protects against Additional HPV Types” 18) Febbraio 2015

6. http://www.cancer.gov

7. http://www.treccani.it/enciclopedia.it

8. Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica di Giuseppe Del Giudice, Maria Lattanzi, Rino Rappuoli, “I Vaccini”, 2007