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Il Sangue dei vinti:quel che resta di una sconfitta.

La cinematografia internazionale ha da sempre mostrato all’immaginario collettivo dei sui fruitori la crudeltà,la bestialità e le efferatezze compiute dal Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale. I mass media, nazionali e internazionali, hanno contribuito a formare una rappresentazione dell’ideologia nazista e delle azioni da questa perpetrate in nome della razza ariana, che ben si presta a provocare sentimenti di sdegno, biasimo, disprezzo e condanna morale nella collettività democratica . Lo scenario di “Land of mine-Sotto la sabbia” (2015)in cui si inserisce l’opera cinematografica danese-tedesca di Martin Zandvliet è quanto mai attuale, dato che le guerre, nel mondo, non sono mai terminate. Mutano gli attori, i teatri di guerra, le alleanze, le motivazioni, ma l’idea della pace come ultimo obiettivo dell’umanità rimane, purtroppo un’utopica convinzione. La circolarità con cui guerra e pace si alternano nella storia dell’umanità somigliano ad un binomio imprescindibile, per cui, l’esistenza di una si collega inevitabilmente all’altra, non esiste pace senza guerra e viceversa.

La Danimarca sul finire del 1945: la resa della Germania, un gruppo di adolescenti tedeschi, ultimi soldati del Reich, sono utilizzati dai militari danesi per togliere le mine antiuomo sulla costa danese, piazzate precedentemente dai tedeschi nella Danimarca occupata, nell’ipotesi di uno sbarco angloamericano in quel territorio.

Lunghe distese di spiaggia bianca, infinito cielo soleggiato e profondità delle acque marine stridono con le urla, le umiliazioni cui sono sottoposti i soldati, una velata e nascosta condanna a morte: questo lo sfondo dell’intera narrazione del film danese-tedesco.

Il punto di vista consueto è capovolto dal regista: il fattore umano è il vero protagonista della pellicola, in primo piano l’atrocità della guerra, e in risalto l’ingiustizia subita dai carnefici( i tedeschi) che diventano, in tale circostanza storica, vittime.

Per gli errori di una Nazione pagheranno loro, gli ultimi, soldati tedeschi dai 16 anni in su, che saranno il bersaglio per le atrocità commesse dalla Germania nello scenario di guerra dagli anni ’40. Questo gruppo di soldati è ritratto enfatizzando la giovane età, l’immaturità e la fragilità dal punto di vista umano, essi stessi vittime del regime e della propaganda della Germania nazista. Il focus del prodotto cinematografico è sull’essere umano in quanto persona, risalta e stimola alla riflessione quel microcosmo della soggettività del singolo di fronte agli eventi della Storia, implacabili o eroici che essi siano.

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Il sergente danese Rasmussen, uomo maturo e avvezzo alle vicessitudini della guerra, è alla guida del gruppo, oltre due milioni di mine attendono i soldati tedeschi sulla costa danese; senza cadere in uno scontato sentimentalismo e buonismo in stile fiaba o favola per bambini, l’autore riesce a tratteggiare nell’attore sentimenti quali l’empatia, la comprensione, e l’umanità di questo personaggio, che pur rimanendo sempre dalla parte dei “vincitori” regala un briciolo di umanità a quelli che sono i suoi nemici: un gruppo di giovani che al primo brillare di una mina, piangono, chiamano la mamma e cercano la loro casa in Germania.

Nel rapporto tra prigionieri e sergente si alternano situazioni di disprezzo e bestialità alimentati dall’odio verso i tedeschi, alternati all’emergere di una sorta di “sentimento paterno” per quelli, che quando torneranno a casa( l’elemento principale per qualsiasi soldato in guerra, il ritorno alla madrepatria) troveranno una terra, una nazione e un’idea di patria che non esiste più, spazzata via dalle note vicende belliche che hanno dominato il corso della Storia.