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Il dilemma della medicina odierna, tra aspetti qualitativi e quantitativi:la medicina basata sulle prove di efficacia.

      Oggi la complementarietà dell’aspetto qualitativo e di quello quantitativo interessa la professione medica e ne orienta le scelte cliniche. La medicina basata sulle prove di efficacia è quel processo di ricerca, valutazione e uso dei risultati alla base delle decisioni cliniche. Il metodo è altrimenti definito da autori quali Greenhalgh e Donald come “l’uso di stime matematiche del rischio di benefici e danni, derivati da ricerche di alta qualità su campioni di popolazione, per informare il processo decisionale clinico nelle fasi di indagine diagnostica o la gestione di singoli pazienti” Gli studi clinici controllati e le line guida della pratica medica sono ottenuti mediante una valutazione critica delle ricerche esistenti; esse costituiscono il nucleo fondante della medicina basata sulle prove di efficacia. Si può affermare che la EBM è un metodo clinico ideato per trasferire la conoscenza derivante dalle ricerche scientifiche alla cura dei singoli pazienti. Il fondatore, L. Sacket lo definiva infatti: “l’uso esplicito e coscienzioso delle migliori prove scientifiche nel prendere decisioni nella pratica medica”. La differenza con la pratica clinica tradizionale è appunto nel metodo.In precedenza il medico operava le scelte diagnostiche in

imgbase alla sua esperienza professionale, e sulla base delle fonti da lui utilizzate. ( Le quali non erano esplicitate e dotate di sistematicità).

 L’epidemiologia clinica, che si origina da questo strumento muta i criteri per valutare le ricerche scientifiche:le osservazioni su casistiche individuali perdono rilevanza le ralazioni di causa ed effetto sono analizzate con software statistici ben definiti (che misurano parametri quali intervalli di confidenza e significatività sulle popolazioni oggetto di ricerca) ,l’osservazione sul singolo paziente perde di validità scientifica.

 In sostanza la Medicina basata sulle prove di efficacia vuole ovviare ai limiti della clinica tradizionale applicate dai medici. Queste consistono nell’eccesso di soggettività e nella difficoltà di poter costantemente aggiornarsi sulle miriadi di riviste scientifiche. La definizione esatta di qualità della ricerca è anch’essa un limite per il sanitario. Si rendono dunque necessari degli standars per poter comparare i risultati ottenuti dalle ricerche. Inoltre le conclusioni degli studi non sempre sono generalizzabili nè applicabili ad ogni singolo caso, si procede allora ad un’ ulteriore analisi con idonee metodologie statistiche.

      Quale metodologia applica la medicina basata sulle prove di efficacia? Il metodo usato prevede che il processo clinico sia scompsto in 4 fasi. Le informazioni che si vogliono ottenere vanno sintetizzate in una singola domanda (ad es.quanl’è l’affidabilità di un determinate test diagnostico?),successivamente si consultano le banche dati scientifiche per poter rispondere a tale quesito ( libri e manuali sono obsoleti poichè poco attuali rispetto alla data di pubblicazione); poi si valutano criticamente gli studi in base all’oggetto della ricerca, compilando una check list che metta in relazione i dati validi trovati con il singolo caso che si sta affrontando, infine si applicano , se opportuno, tali risultati al caso concreto. Nella realtà clinica tale processo risulta molto dispendioso in termini di tempo e di impegno per il medico, e mal si presta ad  essere applicato in operazioni di routine.

I criteri di valutazione degli articoli scientifici secondo Sackett.

 

 

 

 

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La biostatistica e il comportamento dei medici.

SALUTE E MALATTIA OGGI: ERRORI E MALASANITA’ IN MEDICINA.

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      L’interpretazione dei fenomeni legati alla salute e alla malattia si presenta nell’odierna società come derivante dalle specifiche professionalità che se ne occupano. Il medico, l’infermiere, le professioni sanitarie adottano modelli e percorsi di intervento che divergono da quelli usati da altri professionisti coinvolti nell’ambito sanitario e medico quali sociologi, statistici, biologi, economisti. L’interdisciplinarità dovrebbe dunque caratterizzare l’approccio alle problematiche dei pazienti, una sinergia comune di professionalità diverse con l’unico obiettivo della salute. Molto spesso si verifica una frammentazione dei saperi specialistici che ostacola e impedisce un’ottimale soluzione delle problematiche legate alla salute.

      Gli errori diagnostici e terapeutici alimentano i costi per la sanità pubblica così come l’insoddisfazione degli utenti e dei loro rispettivi familiari. La cosidetta “malpractice medica” è spesso oggetto di controversie sui principali media, televisioni, radio, giornali. Questi ultimi includono col termine “malasanità” tutta una serie di accadimenti clinici che forniscono al fruitore un frame che inietta una massiccia dose di sfiducia nelle capacità e competenze dei medici e, in generale nella sanità pubblica. Il comportamento dei mass media, in tali casi, si configura nei toni di una tragedia greca. Le analogie con questa suggestiva metafora si ritrovano in un funzionamento corale del sistema industriale informativo: la coscienza morale pubblica della polis diviene il coro tragico, ogni testata nazionale dei giornali quotidiani è uno dei corifei, c’è un protagonista che incarna la Hybris sfidando le leggi umane e un capro espiatorio. Infine, come nella narrazione greca si giunge alla nemesi e alla catarsi, in un rituale di rassicurazione collettiva che opera a livello simbolico. Un iper-semplificazione degli accadimenti etichettati genericamente come malasanità che ben si presta ad una diffusione di massa in un contesto generale di disinformazione diffusa.

      In un approccio scientifico moderno per la  formulazione in condizioni di incertezza della diagnosi sono indispensabili concetti statistici e matematici che però non vanno disgiunti dal contesto storico epistemologico.

Quali sono dunque i concetti teorici comuni che indirizzano l’operato della moltitudine di professionisti che si occupano di salute in ambito sanitario?

L’avvento della Evidence Based Medicine si lega imprescindibilmente ai concetti di natura statistica e matematica applicati al ragionamento clinico. Gli indicatori diagnostici per eccellenza nello scenario della medicina moderna sono: test, analisi di laboratorio, misure rilevate da macchinari, questionari sulla qualità della vita etc. Nella scienza medica odierna predomina l’aspetto quantitativo. Gli stessi professionisti, a volte, eccedono nella fiducia affidata a tali strumenti: test diagnostici e di laboratorio divengono una sorta di oracolo, interrogati profeticamente per ottenere risposte in condizioni di incertezza. La correttezza della diagnosi è un argomento estremamente serio e altrettanto gravi sono le conseguenze degli errori sul singolo così come sulla collettività.

      In tale scenario è doveroso chiamare in causa il fattore economico. La sanità assume le sembianze del mercato, dove le diverse industrie farmaceutiche, chimiche e informatiche, competono per conquistare la loro quota. Ciò avviene poiché spesso la stessa diagnosi è legata al trattamento. I professionisti della salute diventano i principali protagonisti dello scambio di mercato.

       In cosa consiste un test diagnostico e perché è così importante per le decisioni del medico? Un test diagnostico è una qualsiasi procedura utilizzata per l’identificazione di uno stato di malattia. Dal punto di vista del medico se il risultato è positivo induce a sospettare la presenza di una determinata malattia, se negativo invece ne esclude la probabilità. Sensibilità e specificità di un test sono determinanti poiché si riferiscono ad ogni insieme omogeneo, e sono misurabili con la frequenza relativa di esiti positivi e negativi su un campione di popolazione di sani e malati.  Esprimono valori tra 0 e 1, ovvero probabilità. La certezza degli esiti dei test non è mai sicura al 100% in quanto sono possibili sia falsi positivi che falsi negativi.  Il processo logico che ne segue è il confronto del valore ottenuto con un valore o un intervallo di valori che includono o escludono una determinata patologia. Tale risultato è poi contestualizzato in base alle informazioni fornite dal paziente, ai segni e ai sintomi nonché confrontato con altre indagini strumentali. Se utilizzati correttamente i test diagnostici sono una valida e preziosa fonte per il medico.

Accade però molto spesso che le analisi di laboratorio ( emocromo, VES , radiografie…) prescritte in via ordinaria dal personale medico di varie strutture (sia pubbliche sia private)  abbiano costi sanitari non sempre bassi. Il medico infatti si trova a ragionare in una logica difensiva, molte indagini vengono svolte per evitare contenziosi legali che scaturirebbero da una violazione del codice deontologico del medico.  La logica prevalente è quella del controllo e del continuo monitoraggio.

      Il cambiamento epidemiologico delle società industriali e post industriali ha registrato un incremento di malattie croniche legate all’innalzamento della vita media e all’invecchiamento progressivo della popolazione globale. Se le epidemie infettive sono retaggio di un antico passato oggi le emergenze sanitarie si identificano con le malattie croniche e anche psico-sociali.

Il dilemma della medicina odierna, tra aspetti qualitativi e quantitativi:la medicina basata sulle prove di efficacia.

 

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Scienze e diritto nella procreazione medicalmente assistita.

LE FRONTIERE DELLA FECONDAZIONE ARTIFICIALE NELLA SCIENZA

La fecondazione eterologa permette l’unione dei gameti artificialmente, osservabili tramite il microscopio. Il seme o l’ovulo provengono da un individuo al di fuori della coppia. I metodi ammessi dalla legge 40 del 2004 in Italia per questa tipologia di fecondazione sono principalmente due e si suddividono in interventi di primo e secondo livello.

       Nell’ inseminazione artificiale si procede attraverso l’inserimento di liquido seminale nella cavità uterina, la tecnica  viene detta di “primo livello” e superando il tratto cervicale gli spermatozoi giungono direttamente all’utero.  L ’inseminazione intrauterina mira, attraverso una terapia ormonale (generalmente gonadotropine) a stimolare la produzione di ovociti da parte dell’ovaio durante il medesimo ciclo. Lo scopo è indurre una crescita follicolare multipla. In tal caso è importante monitorare ogni due giorni la crescita dei follicoli (che diventeranno ovociti) tramite ecografie oppure analisi del sangue per controllare la secrezione ormonale.

       Se la sterilità è di grado importante si ricorre alla tecnica di secondo livello, detta fertilizzazione in vitro con trasferimento degli embrioni. .I tre ovociti  sono prelevati per via transvaginale in anestesia e l’ intervento è monitorato da ecografia. Successivamente vengono scelti gli ovuli per la fecondazione e viene preparato il campione di sperma.. Gli ovociti sono posti su una piastra in cui è presente liquido seminale, se avviene la fecondazione si prelevano 3 embrioni che vengono trasferiti nell’utero.. Il numero di tre è previsto dalle line guida  della European Society for Human Reproduction & Embryology (ESHRE) allo scopo di mantenere un certo equilibrio fra probabilità di gravidanza e rischio di gravidanza plurigemellare.  Il trattamento può durare dalle 4 alle 6 settimane.

        Altrimenti,  un’altra opzione, sempre di secondo livello, prevede l’iniezione intracitoplasmatica di sperma. Un singolo spermatozoo è inserito nel citoplasma , al fine di fecondare l’ovulo, con i medesimi accorgimenti medici della precedente tecnica. Anche in questa evenienza, infatti, è importante il monitoraggio della risposta ovarica. Così si crea artificialmente l’unione delle cellule riproduttive mature, ovvero i gameti.  Clinicamente si pongono problemi rilevanti, come la possibilità che tramite metodi artificiali si possano generare figli malformati o con problemi genetici. Tali possibilità sono dovute alla situazione biologica pre esistente della madre e non alle tecniche utilizzate. Molto spesso queste donne si sottopongono a severe terapie ormonali o interventi dell’apparato genitale proprio per il loro problema di infertilità.

       La fecondazione di secondo livello presenta invece questioni legate ad anomalie dell’imprinting genomico, di fatti alcune rare malattie genetiche ( sindrome di Angelman, di Berkwitz) sembrano poter essere correlate proprio alla tipologia di inseminazione intracitoplasmatica. Ciò sembra derivare dalle condizioni di ipofertilità  paterna . Tali rischi inducono i clinici a consigliare di sottoporsi alla fecondazione di secondo livello solo in casi estremamente gravi di infertilità..

      La diagnosi pre impianto , clinicamente, risulta essere una pratica molto importante. Tale indagine viene svolta su due globuli polari, o su blastomeri pre embrionali, prelevati dalla donna. I globuli polari sono corpi citoplasmatici che contengono i cromosomi espulsi dall’ovocita durante la maturazione meiotica.

       Il primo esce durante l’ovulazione, il secondo con l’entrata dello spermatozoo nell’ovoplasma, con l’attivazione dell’ovocita. Le indagini vanno eseguite su entrambi e forniscono informazioni genetiche sull’ovocita e non sull’embrione. Si possono così utilizzare cellule uovo non portartici di malattie genetiche per il concepimento, in caso di malattie recessive di entrambi i genitori o di malattie genetiche della madre.

       Sempre in relazione alla fecondazione artificiale una metodica utilizzata è   la crioconservazione ovvero il congelamento delle cellule uovo, che sostituisce quella dei pre embrioni (un metodo vietato in Italia) e permette la conservazione del patrimonio follicolare in donne con patologie che danneggiano il sistema riproduttivo. Vengono congelate strisce di corticale ovarica trasferite poi in altre parti del corpo (es. addome) al fine di ripristinare una corretta funzionalità. Infatti la maturazione dei follicoli in vitro risulta altamente complessa.

       Si sta tentando, in alcuni laboratori, di produrre ovuli artificiali per evitare la donazione di quelli naturali. Inoltre sperimentazioni sono in atto per ridurre l’ipofertilità, aumentando il numero dei gameti e dunque le possibilità riproduttive. Si coltivano in vitro spermatogoni, cellule germinative primordiali; negli ovociti si tenta di bloccare la divisione meiotica e attivare la mitosi per la moltiplicazione delle cellule.

       Oggi la fecondazione eterologa nel territorio italiano è inclusa nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) del Servizio Sanitario Nazionale ed è gratuita o tramite pagamento di ticket, fino a tre tentativi, per le donne fino ai 43 anni di età.

PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA ALLA LUCE DELL’ULTIMA PRONUNCIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE.

“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”: con la Legge 40/2004 l’ordinamento giuridico italiano disciplina gli artifici medico chirurgici atti a sopperire l’incapacità umana, femminile o maschile che essa sia, di poter generare prole naturalmente. Sterilità e infecondità sono considerati alla stessa stregua.

A livello di legislazione i limiti imposti dalla legge (L.40/2004) riguardanti la ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni, intendono evitare la possibilità di creare “bambini su misura”, intervenendo geneticamente sui gameti. Il ricorso all’eugenetica è vietato , così come ogni forma di speculazione economica. La recente disciplina in materia di procreazione assistita, quali risultati ha raggiunto, considerando i cambiamenti dell’opinione pubblica nel corso del tempo? Si tenterà di rispondere a tale domanda alla luce delle ultime pronunce giurisprudenziali in merito e in base agli avanzamenti della scienza medica in ambito di procreazione.

      Il legislatore, fin dalla genesi della regolamentazione in questione ha optato per una visione omnicomprensiva del concetto di procreazione. Tale impostazione ha animato, nel corso di un decennio, numerosi dibattiti e pronunce giurisprudenziali, che hanno modificato la morfologia della legge stessa.

      Tutt’oggi   la dicotomia tra bioetica e diritto genera antitetiche posizioni ideologiche, che mal si conciliano con una coerente e armoniosa interpretazione della norma pretoria.  Diverse concezioni si alternano nel dibattito odierno: alcuni ritengono sia impossibile rinunciare al diritto in questioni di bioetica, altri sostengono che quest’ultimo sia solamente un meccanismo costituito al fine di emettere sanzioni. Sul versante cattolico si palesa un’evidente avversione sulla costruzione di legislazioni in materia di etica ai fini di nuove nascite.

       La bioetica nasce agli inizi degli anni settanta del millenovecento e si occupa di numerose questioni relative alla cura medica, alla morte e alla vita. In quest’ultimo caso si inseriscono le riflessioni sulla nascita al di fuori del rapporto sessuale, la tecnica della fecondazione in vitro e il trasferimento dell’embrione al fine di evitare malattie genetiche.

       Difficile definire la stessa “bioetica”: tale scienza ricomprende l’etica ma non è identificabile con quest’ultima, gli aspetti inclusi sono la morale, il diritto e le regolamentazioni in ambito medico.

      All’origine delle filosofie sulle nascite medicalmente assistite si instaura l’elaborazione di un’etica riproduttiva che ricomprenda i diritti dei singoli al pari della futura prole. In una concezione deontologica si rivelano avversioni sulla possibilità stessa di far nascere un bambino al di fuori della normale coppia eterosessuale, in un ottica consequenzialista prevalgono le valutazioni delle condizioni di vita della futura famiglia con prole, secondo invece le concezioni della virtù si valutano le caratteristiche personali di coloro che scelgono di far nascere una nuova vita.

L’etica medica e la bioetica non vanno comunque confuse: nelle questioni sanitarie si ricerca una soluzione accettabile sia dal paziente che dal medico.

      Il lato normativo mostra dunque una sottile interposizione con il biodiritto, se si vogliono considerare quali criteri etici affrontare nel momento in cui si verificano problemi bisogna necessariamente aprire uno spazio etico di riflessione che ricomprenda una moltitudine di scienze umane quali l’antropologia, la psicologia la storia e la sociologia, indispensabili per evidenziare il contesto in cui i fatti si verificano. Il biodiritto si pone come un diritto giurisprudenziale e non legislativo. Il versante normativo si costituisce anche con la politica ai fini di confrontarsi sulle dimensioni normative che vengono istituzionalizzate.

      Il primo caso si poneva all’attenzione del Tribunale di Roma già nel 1956, una donna riceveva da terzi il seme, al di fuori della coppia, per procreare, dunque una fecondazione di tipo eterologa. Tale fatto metteva in luce la necessità di porre una regolamentazione in materia, considerando i progressi scientifici e medici che accompagnavano tale tecnica. In questa posizione è possibile intravedere l’interazione tra biologia e ricerca medica e come si inserisca la natura bioetica dei fatti accaduti. In tal senso questa disciplina si pone come una struttura che permette agli esseri umani di usufruire di pratiche e scoperte che arricchiscono le potenzialità terapeutiche.

       Si poteva dunque costruire e pensare un’etica riproduttiva che considerasse le ragioni morali dei singoli e della prole? Ovviamente la risposta era affermativa, si sviluppava un filone di studi che dava vita, nel proseguo del tempo, alla recente legge del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Il livello normativo però, fino alla fine degli anni 90 non è progredito al pari della scienza medica. Sorgevano nuove ipotesi come, “il diritto alla procreazione e ad un patrimonio genetico non manipolato”, come anche il diritto di conoscere la propria origine in caso di fecondazione eterologa. A fronte di un vuoto legislativo e normativo nasceva la legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita a livello medico.

      Il principale assunto prevedeva che l’embrione fosse persona sin dal momento del concepimento e dunque titolare di diritti tutelabili giuridicamente. Ultimamente la sentenza della Corte Costituzionale n.163 del 2014 ha abolito il divieto di fecondazione eterologa, precedentemente espresso nell’originaria formula della legge. Le fecondazione eterologa è assimilata a quella di tipo omologa, in cui il seme proviene dal partner della donna.  Sulle tecniche di produzione degli embrioni vengono definiti dei limiti, di fatti deve essere realizzato un solo impianto che non superi il numero di tre embrioni, al fine di consentire una gravidanza sicura. Il consenso informato si pone fondamentale ai fini della tutela della salute della donna, è quest’ultima infatti la titolare della decisone ultima, dopo aver sentito il parere tecnico del medico.

       In tema di diritti si inserisce anche quello dei futuri genitori ad avere un figlio sano. Se i genitori sono portatori di malattie genetiche trasmissibili, fin dove può arrivare il loro diritto a procreare con l’aiuto della scienza e della medicina?  In tal senso ci si rivolge ad uno dei principi della legge 40, ovvero il divieto di sperimentazioni cliniche sugli embrioni e sui gameti a scopo eugenetico, ovvero si vietano manipolazioni del patrimonio genetico che esulino da uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione (art.32 diritto alla Salute). La diagnosi pre impianto ha incontrato non poche difficoltà a cause di interpretazioni della norma in materia di procreazione medicalmente assistita. La procreazione assistita infatti ricomprende significati che vanno oltre la fecondazione eterologa. Nel caso di coppie non sterili infatti il ricorso a tale legge non è contemplato, il rischio di generare figli affetti da malattie genetiche non è di competenza di tale normativa.

       La Corte Europea dei Diritti dell’uomo interviene nel 2012 per far luce sulle incongruenze di un’interpretazione estensiva della L.40/2004. Il giudice in questione infatti si pronuncia favorevolmente nel caso delle coppie fertili in cui la diagnosi pre impianto sia a tutela della salute della donna, ovvero la manipolazione del patrimonio genetico avvenga solo al fine di evitare la nascita di un figlio con malattie genetiche trasmesse da uno dei genitori (o entrambi). La contraddizione, evidenziata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, è insita nella relazione con la L.194/1978 la quale permette invece il ricorso all’aborto terapeutico, entro dati limiti temporali, per evitare la nascita di figli malati  In conclusione sulla fecondazione eterologa l’Italia si allinea giuridicamente ad altri paesi europei, come Germania e Spagna in cui è già possibile ricorrervi previo parere dell’Ordine dei Medici i quali accertano che non si tratti di maternità surrogata, Nel Regno Unito e in Francia è necessaria invece una dichiarazione del padre sociale. Rimangono ancora molti margini per regolamentare una questione molto delicata che presenta notevoli interpretazioni per la varietà dei temi che la comprendono.

Bibliografia e sitografia:

  • D’Aloia, Norme, giustizia, diritti nel tempo delle bio-tecnologie: note introduttive, in A. D’Aloia, a cura di), Biotecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Torino, 2006, XVI.
  • di Roma, 30 aprile 1956, in Giurisprudenza italiana, fasc. 1, 1957, 218. Per un commento della decisione si veda A. TRABUCCHI, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli,.
  • Rodotà S.’, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, cit., 139.
  • Liberali B., La diagnosi genetica preimpianto fra interpretazioni costituzionalmente conformi, disapplicazione della legge n. 40 del 2004, diretta esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e questioni di legittimità costituzionale, su http://www.rivistaaic.it .
  • Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Costa e Pavan c. Italia, sentenza del 28 agosto 2012, ric. n. 54270/2010.
  • Corte Costituzionale, sentenza n. 80 del 2011, dove la Consulta afferma “ove si profili un eventuale contrasto fra una norma e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di un’interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”
  • Bin R., La Corte e la sua scienza, in D’Aloia A. (a cura di), Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, Torino, 2006, 1.
  • Malfatti E., La Corte di Strasburgo tra coerenze e incoerenze della disciplina in materia di procreazione assistita e interruzione volontaria della gravidanza: quando i “giochi di parole” divengono decisivi, su http://www.rivistaaic.it .
  • Flamigni 2004: Flamigni, Carlo, Cosa c’è di nuovo nelle procreazioni assistite, in: Encyclopédie médico-chirurgicale: gynécologie-obstetrique, Paris, Editions scientifiques et médicales, 2004
  • Flamigni 2002: Flamigni, Carlo, La procreazione assistita, Bologna, Il Mulino, 2002
  • Fecondazione assistita in Enciclopedia della Scienze e della tecnica, sito web http://www.treccani.it

Vaccinarsi contro il tumore

LA VACCINAZIONE, PRATICA DIFFUSA SIN DAL SECOLO SCORSO, HA DEBELLATO NEL CORSO DEL TEMPO, MOLTE MALATTIE INFETTIVE PERICOLOSE PER L’ESSERE UMANO. GLI ULTIMI SVILUPPI DELLA TECNOLOGIA MEDICA E CELLULARE SONO GIUNTI ALLA PREVENZIONE DEL CANCRO CAUSATO DAL VIRUS DEL PAPILLOMA UMANO, ATTRAVERSO L’IMMUNIZZAZIONE TRAMITE VACCINO. (VLPS)

Già nel lontano V sec. a.c. Tucidide descriveva gli effetti di un epidemia infettiva, la peste, che colpiva Atene nel 430 a.c. circa, osservando in occasizione dell’evento che “Il male non colpisce mai due volte: o almeno, l’eventuale ricaduta non è mai letale”. In questa semplice affermazione, lo storico esplicitava l’effetto dell’immunizzazione dopo aver contratto il virus, evidenziando che l’organismo umano che aveva in sè il patogeno era in grado, in alcuni casi, di combatterlo autonomamente e diventava immune allo stesso.

La letteratura antica greca e romana del I sec. d.c., attraverso le opere dello scrittore romano Celso, descriveva l’infezione da Papilloma Virus,causa di lesioni in soggetti omosessuali o con abitudini sessuali promiscue.

L’HPV era una malattia infettiva, sessualmente trasmissibile, e prematuri erano i tempi per determinare che si trattasse anche di un agente patogeno infettivo in grado di causare il cancro nelle vie genitali dell’essere umano.

Un momento storico decisivo nella storia dei vaccini fu la scoperta di un medico inglese a Berkley, Edward Jenner: nel 1796, lo studioso inoculò su James Phipps, un bambino di otto anno sano, il virus del vaiolo e scoprì che il contatto con l’agente patogeno poteva rendere il soggetto immune dal contagio. Le sue osservazioni empiriche iniziarono dall’immunità naturale che mostravano i mungitori di vacche affette da malattia con pustole; questi ultimi, infatti, non erano colpiti dal virus e gli resistevano; tale pratica scoperta dal medico inglese, consisteva nell’utilizzare la virulenza del patogeno per sviluppare l’immunità.

L’era dei vaccini ebbe inizio nella metà del ventesimo secolo, nel corso di un periodo in cui alcune malattie infettive erano portartrici di morte e disabilità in un’ampissima parte della popolazione mondiale.

Il vaiolo, il morbillo, la poliomenite erano infezioni letali. Nel millenovecento si contavano circa 400 milioni di decessi causati dal virus del vaiolo in tutto il mondo; solo a partire dagli anni settanta dello scorso secolo avvenne lo sradicamento di questo patogeno, grazie all’introduzione della vaccinazione di massa ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Questa pratica clinica, ad esempio, permetteva nell’arco temporale di un decennio, la scomparsa nella popolazione, delle epidemie da vaiolo in Occidente. Il virus del Papilloma umano, invece, dovrà attendere ancora molto tempo per essere perfettamente identificato dagli scienziati; l’HPV non era oggetto di studi di oncologia virale poiché non era coltivabile in vitro e si replicava soltanto in cellule differenziate.

A partire dalla seconda metà del millenovecento però, le scoperte della biologia molecolare in campo scientifico e medico, ampliarono notevolemente la possibilità di esplorare le cellule epiteliali colpite da lesioni cancerose, nella mucosa della cervice uterina.
Questi trionfi della medicina hanno cambiato l’aspettativa di vita della popolazione mondiale e i successivi sviluppi della tecnologia in microbiologia nel proseguo degli anni, hanno incoraggiato l’opinione pubblica e la massa a nutrire ottimimistiche speranze nelle capacità preventive della scienza biologica e medica.

Sin dagli anni ’70 del secolo scorso il medico tedesco H. Zur Hausen concentrava i suoi studi scientifici sull’ipotesi di una correlazione diretta tra virus del Papilloma Umano e l’insorgenza di lesioni neoplastiche alla cervice dell’utero nella donna. I suoi progressi scientifici permettevano di stabilire un nesso di causalità tra i tipi 16 e 18 del virus e il cancro della cervice uterina; in alcuni casi si rilevava la presenza di genoma nelle cellule neoplastiche integrate in cromosomi.

A partire dal 2006 iniziava la produzione di un vaccino ad hoc per la prevenzione del tumore al collo dell’utero, costituito da particelle simili al virus, commercializzato in Italia già dall’anno successivo.

Nel 2008 lo studioso tedesco veniva insignito del premio Nobel per la medicina e la fisiologia, grazie a questa innovativa scoperta. La classe del Papilloma Virus ad alto potere oncogeno (circa 30 ceppi) possedeva la capacità di trasformare le cellule sane in tumorali, si scopriva l’esistenza di circa 200 tipi di virus, ognuno dei quali veniva identificato con un numero; il 70% dei tumori alla cervice uterina erano attribuibili ai tipi 16 e 18; i tipi 6 e 11 erano responsabili del 90% di condilomi e verruche dell’apparato genitale.

Il virus non poteva essere combattuto da nessun farmaco, per questo necessitava di una robusta strategia preventiva, applicabile tramite la pratica clinica della vaccinazione; si svilupparono dunque vaccini a sub-unità, senza la presenza di patogeni vivi, da somministrare in 3 dosi nel corso di un anno.

L’American Cancer Society college of Obstretician and Ginecologist US Prevention Task force raccomandava l’inizio del papanicolaus test (pap-test) a partire dai 3 anni successivi dall’inizio dell’attività sessuale e comunque dopo i i 21 anni.

L’esame citologico del suddetto test era estremamente importante per identificare precocemente le lesioni precancerose e la presenza di infezione da HPV ad alto rischio oncogeno nelle giovani donne, una corretta prevenzione si attuava con il pap test da effettuare ogni triennio.

La ricerca sui vaccini anti HPV consisteva nello sviluppare preparazioni con proteine strutturali capsidiche L1 ed L2. Il genoma del virus era infatti circondato da un guscio proteico, il capside, composto da circa trecentosessanta copie di un proteina L1 e da dodici copie di proteina L2; la struttura del capside si presentava modulare, con capsomeri che si ripetevano; le proteine L1 ed L2 si autoassemblavano per formare il capside, con una forma di icosaedro, dunque il genoma era una singola molecola di dna circolare a doppia elica divisa in 6 geni E ( early )per la promozione della replicazione cellulare, e due geni L (late) che codificavano per due proteine strutturali L1 e L2.

L’oncoproteina E 6 del capside virale del papilloma virus di tipo 18 era la responsabile, insieme ad E 7, dell’induzione in trasformazione cellulare maligna e del conseguente cancro alla cervice uterina.

In seguito all’interazione di E6 con P53 (antigene tumorale, fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare con funzione di soppressione tumorale) quest’ultima veniva inibita, (E7 interagiva con Prb) provocando la perdita di controllo del ciclo celluare e apoptosi con successiva trasformazione neoplastica.

La proteina oncogena E 6 nell’HPv ad alto rischio alterava la crescita cellulare tramite i suoi effetti sulla proteina P 53. La ricerca sui vaccini si concentrava sulla preparazione con proteine strutturali L1 ed L2 per determinare la produzione di anticorpi che bloccassero l’infezione virale e l’ingresso del virus nel tratto genitale.

Gli orientamenti clinici erano basati sulla valutazione dell’efficacia dei vaccini cosituiti da Virus Like Particles (VLPS),i quali agivano con l’iperespressione di una sola proteina L1 oppure in co- espressione di L1 e L2. Gli HPV -VPLS avevano la capacità di minare la struttura morfologica dei virioni dell’infezione, provocando una risposta immunitaria con alti livelli di anticorpi neutralizzanti.

Ciò perché gli HPV-VPLS non essendo costruiti con DNA virale non avevano proprietà infettive, né oncogene. Questa tipologia di vaccino era stata studiata sui virus del papilloma orale canino, del coniglio e bovino. Infatti le VLPS L1 si dimostrarono potenti immunogeni per la protezione da infezione virale e conseguenti lesioni.

Si approfondirono anche le reazioni sulle scimmie Rhesus dopo la somministrazione per via intramuscolare di HPV 11 VLPS in aggiunta ad una sostanza adiuvante. L’effetto consisteva in una maggiore produzione di immunoglobuline.

Negli esseri umani i vaccini approvati dalla Food and Drug Administration sono stati Gardasil (prodotto da Merck and co. per la prevenzione di lesione precancerose nei tratti genitali femminili e maschili nei giovani di età dai 9 ai 26 anni causati da HpV di tipi 16 e 18, 6 e 11) nonchè Cervarix (della Glaxosmithkline vaccino bivalente contro i tipi 16 e 18); gli scienziati del National Institute Cancer americano avevano sviluppato in parte, insieme alle due case farmaceutiche, le tecnologie su cui si basavano i sopracitati vaccini.

Il cancro alla cervice uterina rimaneva comunque un nemico temibile; infatti il 30% dei tumori al collo dell’utero non risultava sensibile a quest’ultime immunizzazioni.

Dopo la commercializzazione, l’Advisory committee on immunization pratices (ACIP) negli Stati Uniti raccomandava una serie di indicazioni da seguire per queste due vaccinazioni: a quale età andavano somministrate (dagli undici anni in su, sia maschi che femmine); quali dosi andavano utilizzate e in quale arco temporale; in quali circostanze cliniche non andasse prescritto. Ogni stato americano aveva facoltà di decidere se rendere disponibile o meno la vaccinazione contro l’HPV per i propri ragazzi. I dati del sito Center for disease and control prevention americano riportavano che tra l’elenco delle scuole di ogni ordine e grado degli Stati del Nord america; fin dall’anno 2008 in alcune scuole medie superiori della Colombia, dell’Indiana e della Virginia, era stato distribuito alle ragazze materiale informativo sulla prevenzione dell’HPV.

Il “Journal of Communiy Health”, ultimamente, riportava che nell’anno duemilatredici l’adesione a queste vaccinazioni risultava essere molto bassa tra i giovani, soprattutto in relazione alle classiche pratiche di immunizzazione raccomandate dall’Advisory committe on immunization pratices ( tetano e difteria,meningococco, influenza).

Soltanto poco più della metà delle ragazze tra i 13 e i 17 anni avevano ricevuto l’ultima dose di vaccino contro l’HPV, nei maschi della medesima età il numero delle dosi somministrate scendeva ancora di più. Per gli altri vaccini invece si raggiungeva la quasi totalità delle relative somministrazioni.

Per aumentare l’adesione alla prevenzione del cancro alla cervice uterina e alle zone genitali, una soluzione poteva essere introdurre la pratica clinica stessa all’interno delle scuole. L’età della vaccinazione( dai 9 anni in su) permetteva di avere potenzialmente una risposta più ampia, dato che tutti i giovani di quell’età frequentavano il ciclo scolastico d’obbligo.

La principale preoccupazione era convincere i genitori dei ragazzi a vaccinarsi; infatti, trattandosi di minorenni, la scelta sull’adesione, ricadeva necessariamente su di essi. L’evidenza scientifica risultante dall’indagine effettuata nel Richmond country (Georgia) da L. Gargano dimostrava una bassa sensibilità sull’argomento HPV, da parte dei genitori di alcune scuole elementari e medie prese in considerazione per lo studio condotto.

Il protocollo di studio era stato approvato dall’Emory Institutional review board e voleva conoscere quali fattori psicosociali e demografici influenzassero l’adesione o meno dei genitori dei ragazzi in età da vaccinazione nelle scuole.

Lo sviluppo del questionario che era stato loro somministrato, si basava sulla teoria dell’Health Belief Model (cfr. Becker, 1974, relazione tra prevenzione della salute e grado di minaccia percepita) e intendeva rilevare la percezione, da parte dei genitori dei figli arruolati nello studio, della malattia HPV e le sue conseguenze, gli ostacoli e i benefici alla vaccinazione contro il Virus del Papilloma Umano. Inoltre erano stati attivati nelle scuole medie brevi corsi sul suddetto virus condotti da insegnanti di scienze per i ragazzi e le ragazze. L’invito a partecipare con la compilazione di un questionario, sia on line che telefonico, diede tali risultati: soltanto il 10% dei questionari per i genitori ritornò completamente compilato. Risultava necessaria una maggiore e più incisiva campagna di sensibilizzazione affinchè il pericolo connesso all’infezione da HPV fosse compreso da tutti. Il medico Douglas R. Lowy, a capo del laboratorio di oncologia cellulare presso il National Institute of Cancer degli Stati Uniti, in merito ai due vaccini sopracitati, (Cervarix e Gardasil), affermava che “…dopo il monitoraggio sulla sicurezza dei due vaccini, prima della licenza di commercializzazione, entrambi si sono dimostrati efficaci e sicuri, al pari di tanti altri tipi di vaccini. Essi sono stati usati da milioni di persone negli Stati Uniti e in altri paesi, i problemi più comuni riscontrati sono stati brevi dolori nel sito dell’iniezione. Si sono verificate rare reazioni allergiche. Ci sono state le stesse problematiche comuni ad altre vaccinazioni. I vaccini contro l’HPV non sono stati sufficientemente testati durante il periodo di gravidanza della donna e non dovranno essere somministrati a donne incinte.”
Il “New England Medicine Journal” recentemente riportava che la Merck e co., azienda farmaceutica americana, stava sviluppando una seconda generazione di vaccini contro l’HPV ad alto rischio oncogeno, al fine di offrire una maggiore protezione rispetto al quadrivalente già in commercio (Gardasil, contro l’HPV di tipo 16-18-6-11). Il nuovo vaccino sperimentale era nonavalente, ovvero adatto a prevenire ben nove tipi di infezione virale ( i tipi 31-33-45-52-58 di Papilloma Virus, più i tipi 6-11-16-18). I risultati degli studi clinici ( fase III-IV) riportavano che la protezione da cancro alle vie genitali saliva fino al 97%, considerando che venivano prese in considerazione più tipologie di virus ( contro il 70% del quadrivalente Gardasil). La Food and Drug Administration stava valutando la possibilità di rendere disponibile nel mercato farmaceutico o meno, il nuovo vaccino nonavalente.

Recentemente la ricerca clinica per combattere il tumore nei tratti genitali femminili, si sta orientando anche verso la sperimentazione di vaccini terapeutici, per superare la fase di prevenzione e sperimentare una cura degli individui già affetti e colpiti da lesioni precancerose da Virus del Papilloma Umano di tipo 16.

I ricercatori dell’Arkansas Cancer Research Center University stanno valutando di studiare l’effetto di un vaccino per la regressione delle neoplasie, lesioni intraepiteliali delle cellule nella cervice uterina. Il nuovo vaccino si basa su un frammento sintetico delle proteina E 6 del virus e di un estratto di lievito (Candin) per attivare un’efficace risposta immunitaria che faccia regredire l’avanzamento del tumore.

Gli studi clinici sono nella fase iniziale (fase 1) e i risultati saranno completi alla fine del 2015; ancora ci vorrà del tempo per poter eventualmente affermare l’esistenza di un vaccino, capace di curare ed eliminare il cancro.

Bibliografia e webgrafia.
1. Lisa M. Gargano et all. “ La vaccinazione clinica per gli adolescenti nella scuola in relazione all’approvazione dei genitori” trad.mia (originale dall’inglese: “School located Vaccination clinics for adolescent: correlates of acceptance among parent ) Journal of community Health, Dicembre 2014

2. L. Mariani “L’infezione da HPV: dalla prevenzione all’overtreatment” Ginecologia Oncologica, Istituto Nazionale Tumori Regina Elena, Roma

3. National Institute Cancer, “Papilloma Virus umano: Intervista con il medico Douglas R.” (trad.mia da “Human Papillomavirus (HPV) Vaccines: An Interview with Douglas R. Lowy, M.D.”) 20 Novembre 2014

4. Mayumi Nakagawa, “Un vaccino terapeutico per l’HPV, fase prima dello studio clinico.” (trad.mia da “A Phase I Clinical Trial of an HPV Therapeutic Vaccine”, , Università dell’Arkansas degli Stati Uniti, 18 Settembre 2014

5. New England Journal of Medicine, “Il vaccino Gardasil 9 protegge contro altri tipi di HPV” (trad.mia da “Gardasil 9 Vaccine Protects against Additional HPV Types” 18) Febbraio 2015

6. http://www.cancer.gov

7. http://www.treccani.it/enciclopedia.it

8. Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica di Giuseppe Del Giudice, Maria Lattanzi, Rino Rappuoli, “I Vaccini”, 2007