Pubblicato in: Sociologia della salute e della medicina

I mille volti della disabilità

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Nell’immagine Pinel spezza le catene dei malati  di Robert Fleury (Parigi, Ospedale)

Immagine tratta da Wikipedia 

Foto di C.L. Muller (Prima immagine in alto)

Estratto del primo paragrafo del lavoro per  tesi di Laurea Magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica presso Sapienza Università di Roma- Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale.

Tesi di Laurea Magistrale Prima classificata nel bando di concorso per dissertazioni sul tema della disabilità

1. Il triangolo della malattia: Ilness, Sickness, Disease secondo un approccio connessionista alla disabilità.

In questo capitolo intendo definire la disabilità come una poliedrica manifestazione fisica e/o psichica dell’essere umano che difficilmente si presta ad una definizione unitaria e univoca.

Tanto complessa si presenta la sua definizione (mai statica, ma dinamica e soggetta alle evoluzioni scientifiche e sociali della comunità nel susseguirsi del tempo) quanto molteplici si presentano le domande circa la sua contestualizzazione nella società odierna, soprattutto in rapporto al tema della salute.

Oggi quest’ultima è un problema sociale e il suo concetto si evolve al mutare degli scenari della società in cui si manifesta; rispetto ai tempi passati, a seguito della transizione demografica e della transizione epidemiologica cambiano le modalità con cui la salute viene intesa (Giarelli, Venneri,2012;157).

 Se nelle società proto industriale la salute si configura come una semplice assenza di malattia, la transizione demografica presenta un quadro di riferimento in cui diminuiscono drasticamente natalità e mortalità e in cui la popolazione che invecchia è in incremento continuo; parallelamente nella transizione epidemiologica le patologie prevalenti sono quelle cronico degenerative soprattutto negli anziani, diminuisce l’emergenza sulle malattie infettive (Giarelli, Venneri ,2012;158).

Questo mutato scenario apre la strada alla nuova concezione normativa dell’OMS, la norma si riferisce alla costruzione di un nuovo quadro di valori verso cui orientare le azioni dei servizi sanitari: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo assenza di malattia” (OMS,1948).

In linea con tali premesse è possibile riferirsi ad un modello analitico per cui la salute diventa un processo più che uno stato, definito dalle connessioni delle relazioni sociali che formano il sistema salute; il fenomeno della disabilità si manifesta in forme diverse a seconda del contesto culturale e storico in cui origina e delle relazioni tra gli attori istituzionali e non, che vi partecipano: in tal senso è multidimensionale (Giarelli, Venneri,2012;161).

 La sociologia della disabilità, fondata su un approccio connessionista[1] si propone di sviluppare un modello multidimensionale della disabilità, quest’ultimo termine si è spesso trovato relegato ai margini della riflessione sociologica, accomunato ai concetti di malattia e devianza (Di Santo,201;50).

Le varie correnti sociologiche che si sono succedute nel tempo classificano e interpretano la disabilità secondo varie accezioni.

 Il filone struttural funzionalista identifica la disabilità come devianza, il disabile è un deviante, colui che appunto devia dalla norma attesa in una comunità; per la corrente interazionista la disabilità coincide con lo stigma, per cui il disabile è essenzialmente un discriminato; nella corrente socio biologica la disabilità appartiene alla sfera della cronicità e il disabile diviene dunque un paziente adattato; nella visione conflittualista la disabilità si identifica col sub proletariato e il disabile è uno sfruttato, un emarginato; l’approccio connessionista, invece, pone la disabilità in termini di (dis) uguaglianza e il suo oggetto d’analisi è il cittadino( Di Santo,2013;23).

In questo testo, se non altrimenti specificato, la parola disabilità è intesa secondo le sottocategorie definite dall’OMS, dunque disabilità fisica, cognitiva, intellettiva, sensoriale(OMS,2011).

Definire la disabilità ed analizzare i termini ad essa correlati risulta di fondamentale importanza, se si considera che, tramite l’analisi della “forma” delle parole, si possono rintracciare nelle parole stesse i contenuti che rimandano alle tipologie di interventi sulla promozione dei diritti delle persone che ne sono portatrici.

 La parola disabile presenta un’etimologia di origine latina e risulta composta dal termine “habilis” che significa abile con un’evidente accezione positiva, destinata però a cambiare segno se si procede alla combinazione della predetta con il prefisso “dis” (quest’ultimo dotato di una connotazione negativa), con la conseguenza che il significato finale della parola in esame coincide con il concetto di non abilità.

In greco antico invece il prefisso “dys” esprime una deviazione dalla norma ed è spesso utilizzato in ambito medico e statistico, anche se restringere il campo d’indagine al settore sanitario appare eccessivamente riduttivo, non foss’altro per il fatto che, ad esempio, “il ritardo mentale, come oggetto di conoscenza, non ha mai avuto una collocazione permanente in un campo: è stato, e continua a essere, un oggetto del discorso medico, psicologico, pedagogico, morale, umanitario e politico” (Carlson in Medeghini, 2013:176).

A livello esemplificativo si cita il ritardo mentale in quanto tale categoria medica presenta un alto livello di interconnessioni disciplinari nel tentativo di volerne descrivere le caratteristiche.

 Nel ventesimo secolo molteplici sono le definizioni per identificare la disabilità, altrettanto diversi sono i modelli concettuali e teorici utilizzati per analizzare questa condizione, i quali si inseriscono nella dimensione della storia della disabilità anche se il confine è strettamente legato alla storia della malattia, in quanto il legame tra le due è sfumato e non delimitato nettamente, infatti storicamente la medicina svolge un ruolo predominante nell’interpretazione della categoria disabilità.

 Secondo il modello multidimensionale della disabilità infatti, il rapporto tra malattia e quest’ultima è strettamente connesso, nei primi modelli medici della comunità scientifica internazionale, la menomazione fisica e/o psichica è la causa della malattia.

 Pertanto, ridurre la problematica della malattia ad una questione solamente medica, significa, ad esempio, trascurare l’emarginazione sociale.

Significa, in altri termini, ignorare che la definizione di disabilità non descrive un vero e proprio attributo della persona (intesa come entità multi sfaccettata, nel quadro di quella visione poliedrica dell’essere umano di cui si è accennato in apertura). Il minimo comune denominatore, l’elemento che tutti coinvolge, è proprio il concetto stesso di norma, la quale inserisce la nostra esistenza in una rete di significati che assumono le sembianze della dicotomia tra chi è nella norma e chi è fuori dalla norma.

Parlare di inclusione presuppone che esista il suo opposto, ovvero l’esclusione.

Appare necessario procedere ad un brevissimo excursus storico-sociale per identificare i significati culturali e sociali della disabilità nella storia.

 Le fonti che permettono lo studio della realtà nel mondo antico sono legate all’archeologia, alla letteratura come anche allo studio dei miti, delle istituzioni sociale e dei riti.

Le tracce dell’antichità non riportano molte notizie sull’esistenza di persone con infermità intellettive, al contrario di quelle riguardanti le deformazioni fisiche; basti pensare alla creazione della mitologia del mostro nel mondo antico, che incarna il caso limite della disabilità fisica.

Nell’antica Babilonia, in Grecia e nella Roma imperiale condotte classiche di eliminazione consistevano nell’infanticidio dei bambini nati con deformazioni fisiche; la disabilità era un vero e proprio segnale divino: un castigo degli dei che colpiva i genitori ingrati.

 Inoltre fattori economici e teologici contribuivano a considerare la disabilità una grave limitazione per le famiglie dell’epoca (Di Santo,2013).

Si suppone che le condotte di eliminazione e di abbandono da parte di queste antiche società non fossero le uniche; le infermità intellettive godevano di una maggiore considerazione, in alcuni rari casi si verificano episodi di valorizzazione.

Le differenze sociali nel trattamento delle disabilità anche all’epoca erano legate alla classe di appartenenza: cura e assistenza, così come integrazione, erano prerogative dei ranghi sociali più alti, la plebe e gli schiavi invece, erano condannati alla povertà e all’emarginazione.

I cosiddetti “pazzi” provocano diverse reazioni nella società, la follia era spiegata con l’intervento di una divinità soprannaturale incarnata nell’individuo, tanto da incutere timore e rispetto nel prossimo; in rari casi però i folli erano considerati portatori di grandi virtù.

 La maggioranza di costoro, relegati ai margini della vita di comunità, erano sottoposti a regimi disciplinari.

 Successivamente, nei testi biblici compare la figura di un Dio maggiormente misericordioso più che punitivo, orientato all’accoglienza e al supporto più che all’emarginazione e all’esclusione dei diversi (Scianchi,2014).

Le pratiche sociali del passato antico nei confronti della disabilità permettono di giungere alla definizione di quel substrato culturale e collettivo che, tramandato di generazione in generazione, si tramuta nell’odierno pregiudizio.

 Nel corso del tempo le modalità delle istituzioni per il recupero dei soggetti disabili sono cambiate al mutare del progresso civile e morale delle società (Di Santo,2013).

 Il modello multiforme di disabilità abbraccia le tre dimensioni della storia sociale della disabilità, del pregiudizio, dello stereotipo e dello stigma come limitazioni, per cui è possibile allargare l’orizzonte alle diverse culture storiche della disabilità, per giungere poi comprendere in quali modalità oggi la società interpreta questo costrutto multidimensionale in ambito istituzionale (Di Santo,2013).

Se, nell’immaginario collettivo l’evitamento e l’esclusione erano destinate ai soggetti con la lebbra nel Medioevo, successivamente tale trattamento sarà destinato ai malati di mente a cavallo tra XVI e il XVII secolo.

 L’epoca dell’illuminismo si avvale dei progressi della scienza medica, anche se le pratiche rispondevano a trattamenti molto spesso inumani e disgustosi (Di Santo,2013).

 In seguito si passa dalla restrizione in strutture, all’isolamento in altre, ai fini di protezione e cura, sotto il controllo di operatori specializzati: nascono dunque i manicomi. Già nel 1840 si afferma nella società inglese il concetto di anormalità, legato imprescindibilmente allo stato di malattia (Medeghini et al,2015); Galton nel 1833 modifica “la distribuzione normale” della curva di Gauss per identificare alcune caratteristiche ricorrenti nelle popolazioni.

 Linguisticamente il concetto di “norma” si struttura nella disciplina della statistica (Davis in Medeghini,2015); Adolphe Quètelet con il suo concetto di media diventa il precursore dell’idea della norma affiancata al progresso, ne consegue una suddivisione ideale della popolazione tra coloro i quali appartengono alla norma e quelli che ne sono al di fuori.

A partire da tali considerazioni con la revisione della distribuzione normale Galton modifica la teoria statistica ponendo le basi successive per lo sviluppo dei test di intelligenza e di quelli scolastici (Davis in Medeghini,2015).

 Quest’ottica di normalità (contrapposta all’anormalità) si genera per le esigenze del gruppo dominante di controllare e concretizzare una forma sociale gerarchizzata. A partire dal XIX e XX secolo, la disabilità intellettiva-idiozia (da intendersi come una mancanza) era già distinta dalla follia, andando a configurare una condizione a sé stante e non una sottospecie di alterazione mentale data dalla pazzia.

 Le pratiche istituzionali contribuirono a creare definizioni e trattamenti in strutture organizzate; è nelle scuole per deboli mentali che si studiavano le disabilità intellettive.

Questi primi modelli si basavano sulla segregazione, con l’implementazione di istituzioni speciali. In Francia J.M. Gaspard Itard e E. Seguin, a metà del milleottocento, cercarono di educare un bambino (Victor) elaborando poi una pedagogia speciale per le disabilità intellettive.

Tali tentativi furono mal accolti nella nazione di origine, ma furono esportati negli Stati Uniti; nel contempo, il fondatore della psichiatria moderna, Pinel affermava le possibilità di guarigione dei soggetti affetti da follia, purché sottoposti a trattamenti esclusivamente in ospedali e istituzioni speciali.

Gli istituti per deboli di mente erano denominati Scuole, e in America si svilupparono nella metà del XVIII secolo; custodia addestramento ed educazione erano le parole chiave per comprendere le finalità di tali istituzioni (Medeghini, 2013).

Infatti, erano previste la protezione e la custodia per coloro i quali non rispondevano allo stimolo educativo, mentre si perseguiva lo scopo della trasformazione di soggetti potenzialmente curabili in individui produttivi per la società.

 Disciplina ed esclusione connesse alla disabilità intellettiva erano le caratteristiche fondamentali che connotavano chiaramente i summenzionati Manicomi, Scuole o Istituzioni.

 In Francia e in Gran Bretagna nascevano forme di controllo sociale per queste categorie di persone, come le leggi per l’internamento per malattia mentale contro la volontà dei soggetti, attraverso il potere delegato ai medici (Medeghini, 2013).

 Il pericolo sociale e immutabile derivante dalla “imbecillità morale” era tenuto in considerazione, tanto che Isaac Kerlin scriveva quanto segue: “Noi abbiamo delle persone che a causa di qualche errore congenito o difetto radicale a carico dei centri recettivi, sono parzialmente, o a volte del tutto, privi del cosiddetto senso morale, e nessun ambiente o educazione potrà sopperire a tale deficienza.” (1976:307)

L’idea di fondo era però quella di migliorare la condizione dei deboli di mente, attraverso l’educazione e l’istituzione di ambienti adatti che assumevano i connotati di una sorta di riformatorio a fini produttivi. Nella realtà (scevra da ipocrisie ideologiche), più che di educazione, si trattava di un vero e proprio addestramento e controllo, ai fini di lavori manuali in un contesto industriale.

 La logica che guidava l’istituzione era utilitaristica; lo scopo ultimo dei sovrintendenti (i medici preposti alla cura dei disabili) era di renderle persone utili alla società.

Gli internati al contempo erano oggetti e strumenti dell’ente.

Nel 1876 venne creata l’Association of medical officers of american Institution of idiotic an feeble-minded person, per lo studio di quella che, una volta, era definita deficienza mentale.

La maggior parte delle conoscenze prodotte sulle cause, sui trattamenti, sulle definizioni e sulle teorie sono dovute all’esistenza di tali istituti, cosi come i numerosi progressi nella medicina specialistica.

 I compiti principali di tali organizzazioni professionali erano trasversali; l’impostazione si proponeva di essere medica, pedagogica e, contemporaneamente, terapeutica nei riguardi dei deboli di mente (R. Medeghini,2013).

 Agli inizi del Novecento, la questione dell’idiozia viene concettualizzata in termini quantitativi; il medico francese Seguine, dedito allo studio del ritardo mentale, si focalizzava sull’analisi delle funzioni del corpo ed ipotizzava una cura data dall’istruzione, se non per tutti, almeno per la maggioranza dei deboli di mente. Per questi ultimi si configurava, allora, un problema di grado e di intensità e non di genere. (Medeghini, 2013:181)

 Seguin, infatti, affermava che “egli è uno di noi nell’umanità, ma rinchiuso in un involucro imperfetto” (1919, p.48).  Ancora oggi in clinica si utilizzano i test quantitativi per determinare il grado di intelligenza e di debolezza mentale, al fine di poter effettuare una misurazione dimensionale del funzionamento intellettivo.

Tuttavia, in quei periodi storici, non scompaiono affatto le rappresentazioni qualitative degli idioti, considerati simili agli animali, come una sottospecie umana o addirittura appartenenti ad una altra razza. Le stesse definizioni scientifiche e tecniche erano profondamente influenzate da questo substrato culturale.

 La classificazione delle abilità umane ordinate gerarchicamente e la misurazione del Q.I. contribuirono notevolmente a formare la definizione stessa di debolezza mentale (Medeghini et al,2013).

 Se nelle interpretazioni quantitative si esprimeva comunque l’appartenenza al genere umano, seppur con diverse manifestazioni dalla norma, l’interpretazione qualitativa assegnava connotati negativi e di differenza quasi ultraterrena verso i cosiddetti idioti e imbecilli.

Dopo la seconda guerra mondiale un movimento internazionale di scienziati pubblica articoli e opere a sfavore delle istituzioni totali per malati mentali, in un chiaro attacco alla logica e alla prassi della disciplina psichiatrica.

 In seguito si sperimenteranno nuove forme istituzionali per la cura dei disagiati psichici (nel quarto paragrafo si riprenderà la dimensione della Sickness in relazione alla storia sociale della disabilità a partire dai modelli teorici elaborati nella storia recente in tema di disabilità).

Nell’odierno contesto del dibattito sociologico appare necessario descrivere la disabilità in un’ottica prettamente sociale, al fine cogliere le sfumature che caratterizzano tale condizione nelle relazioni col loro ambiente di riferimento.

 Il termine disabile si connota, inoltre, per possedere caratteristiche che rimandano etimologicamente all’etichetta e alla diseguaglianza, oltre che al sapere tecnico e specialistico di natura medica (Di Santo,2013).

L’intimo rapporto tra malattia e disabilità li pone entrambi nella stessa dimensione concettuale, seppur mantenendo ognuno un’autonoma identità semantica.

L’integrazione è il processo che connette simultaneamente le due condizioni sopradescritte.

In questo capitolo, al fine di comprendere l’intrinseca relazione tra malattia e disabilità, si procederà descrivendo dapprima le dimensioni della prima e, successivamente quelle della seconda.

Per comprendere la costruzione sociale del fenomeno della malattia è necessario introdurre Il triangolo terapeutico, o della malattia, di origine anglossassone; il quale è composto dalle relazioni esistenti tra i concetti di Illness, Sickness e Disease (Young, Kleinman,2006). Si specifica che tali termini, nati nella cultura scientifica inglese, sono intraducibili letteralmente in italiano e pertanto verranno riproposti nel testo così come originati dalla cultura inglese (www.treccani.it).

 Questa modalità di considerare più dimensioni della malattia è, in realtà, alla base della Medicina Narrativa (NBM), la quale si origina negli Stati Uniti dagli studi della Harvard Medical School che si ispirano ad un approccio ermeneutico e fenomenologico[2] (Giarelli, Venneri;2012;270).

 Kleinmann[3] considera la malattia come una costruzione culturale, un insieme di significati simbolici che modellano la realtà.

In virtù di tale convinzione, salute malattia e medicina sono essi stessi sistemi simbolici in interazione tra di loro, in cui si ritracciano i significati, i valori e le norme che strutturano l’esperienza della malattia (Di Santo, pdf).

Nella società contemporanea vale un principio alquanto contradditorio, ovvero “…il paradosso è costituito dal fatto che la malattia è allo stesso tempo il più individuale e il più sociale degli eventi…” (Augè, 1986:34).

Le parole dell’antropologo aiutano a comprendere che, sia dal punto di vista del singolo, sia della collettività, l’ambivalenza fenomenica della malattia sia una caratteristica di entrambe le dimensioni della malattia come della disabilità (Giarelli, Venneri,2012)

Questa considerazione introduttiva permette di evidenziare come l’evento della malattia sia specificatamente frutto anche di un costrutto sociale: la relazione sociale che si instaura intorno a tale fenomeno è di tipo triadica e genera un sistema d’interazione sociale tra la persona, la medicina e la società (Giarelli, Venneri,233;2012).

La Illness corrisponde all’esperienza di malattia esperita dalla persona, la quale si inserisce in una cornice universale del vissuto umano; è il malessere soggettivo in un’accezione prettamente psicologica e culturale.

Le manifestazioni psico-fisiche dell’infermità sono tradotte dall’essere umano per mezzo del linguaggio, quest’ultimo è però un tramite imperfetto e la sola conoscenza del contesto non esaurisce il contesto culturale in cui esplica il ruolo del malato.

Questo termine (Illness), descrive l’insieme delle percezioni soggettive e va oltre il significato classico di malattia, intesa come disfunzione organica, è il modo in cui affiora la consapevolezza del disturbo nel soggetto.

L’elaborazione di alcuni vissuti problematici e la compresenza di ostacoli sociali nella coscienza del singolo caratterizzano tale condizione che si può definire e manifestare anche come un disagio(Kleinmann,1980).

Il termine disease rimanda alla componente medica, la quale certifica l’evento come appartenente alla sfera della patologia; quest’ultimo rimanda alla categorizzazione nosologica delle malattie, all’etichetta medica che le identifica: la visione organica e scientifica biomedica è pienamente espressa da Disease.

Sickness è l’insieme delle relazioni sociali della malattia e corrisponde alla piena accettazione del ruolo del malato di fronte alla società, ovvero il riconoscimento sociale dei sintomi; quella trama di relazioni insita nel tessuto sociale di riferimento per una comunità, in cui un comportamento preoccupante e segni biologici assumono una rilevanza socialmente significativa (Young, 1982).

 Quest’ultima può essere positiva per alcuni versi (ad esempio il soggetto ha accesso alle cure mediche) o anche negativa (la connotazione identitaria di malato, molto vicina a quella di disabile, si identifica tradizionalmente come una condizione non desiderabile dai membri di una società).

Sickness, alla base di disease e di Ilness, concerne come la società riconosce o meno uno stato di malattia; il suo modo di interpretarlo e anche di stigmatizzarlo: è il contesto di relazioni in cui si inserisce la disabilità.

Fin dall’antichità l’approccio sociale e culturale alla disabilità in genere, si caratterizza per essere compreso nel concetto di stigmatizzazione elaborato da Goffman[4] ; la relazione sociale, corrispondente allo stigma, opera in virtù delle differenze (biologiche, sociali, psicologiche) tra individui.

 Nel contesto sociale si verifica una prima distinzione tra coloro che vivono lo stigma e coloro che ne sono esclusi.

In seguito si attribuisce a costoro uno stereotipo negativo al fine di stabilire una netta demarcazione tra individui stigmatizzati e individui non stigmatizzati; a tutto ciò consegue un declassamento del soggetto, una perdita di statuto; l’individuo si colloca nell’area dello stigma vero e proprio.

La società, intesa come sickness, stabilisce inoltre confini giuridici e norme, modella le pratiche di cura mediche.

 È importante ricordare che l’interazione tra le tre componenti della triade della malattia è perennemente dinamica e mai statica, muta e si trasforma a seconda del contesto culturale e sociale in cui agisce; l’elemento fondamentale da tenere in considerazione è che la malattia è un fenomeno multidimensionale in continua costruzione tra persona malata, medicina e società (Giarelli, Venneri,2012;234)

Sono state sviluppate in seguito da Maturo[5] sette combinatorie delle interazioni possibili della triade sopradescritta.

 A titolo esemplificativo si potrebbe verificare una illness senza disease e sickness; in tal caso non esiste il riconoscimento sociale della malattia da parte del medico e della società anche se il soggetto avverte un disagio, come sensazioni di malinconia, insoddisfazione etc…  (Di Santo,2013).

A questo punto, è necessario introdurre la tripartizione sociologica della disabilità, che utilizza termini ormai in disuso come quello di Handicap, ai soli fini di definire la fenomenologia della disabilità.

La triade qui esaminata è quella composta da Alterazione, Limitazione ed Handicap (Di Santo,2013;59) i quali sono in stretta connessione tra loro a formare la multidimensionalità propria del concetto di disabilità.

 Il primo termine si intende come una difformità rispetto alle proprietà naturali; se usato in modo figurato esprime il sentimento dell’irritazione e della rabbia.

Un individuo può presentare un’alterazione psichica e/o fisica rispetto ad una condizione iniziale, da qui un significato di cambiamento e degenerazione di un equilibrio.

 La differenza è il concetto associato all’alterazione; in tale accezione l’altro è il diverso, ovvero il disabile, in quanto non rappresenta la normalità comunemente attesa.

Altro componente della triade è il limite.

 In qualsiasi contesto spazio-temporale l’essere umano si confronta con dei limiti, questi ultimi possono essere quelli naturali, come nel caso dei cambiamenti climatici indotti dalle calamità.

I limiti però, indicano anche le norme e regole costruite nella società stessa (il diritto di voto, il confine stabilito dalla proprietà privata, il limite di velocità con le autovetture…).

Se il confine e la barriera possono essere fonte di restrizioni per l’essere umano, nel contempo hanno la peculiarità di garantirgli un certo margine di sicurezza e libertà.

 In questo ragionamento è lecito domandarsi in una società che cosa sia normale, cioè entro i limiti, e cosa invece non lo sia, ovvero vada fuori dalle barriere prestabilite.

 È proprio questo concetto di limite che solca la linea di demarcazione tra quello che è accettabile, incluso tra noi in relazione all’altro (il diverso o il disabile), il quale risulta escluso da qualsivoglia comunità. Ad esempio tempi storici passati dimostrano diverse reazioni della società alle disabilità; oggi si conoscono soltanto alcune modalità di abbandono e di eliminazione della civiltà greco-romana riguardo le deformità congenite corporee, che nel costume e nei valori dell’epoca erano considerate caratteristiche repellenti e abiette (Scianchi,2012).

Per comprendere il presente è necessario indagare quali modi di intendere la disabilità hanno condizionato il passato e quali orientamenti socioculturali hanno caratterizzato l’agire dei popoli. Senza riferirsi ad una retorica che intenda semplicisticamente non cadere negli errori del passato, si può considerare questa parentesi storica e sociale come una prospettiva che consente di capire l’humus culturale in cui si innescano alcune pratiche sociali ancora presenti nelle società attuali[6] .

Secondo quest’ottica ciò che appare diverso da Noi[7] viene relegato in un apposito spazio, possibilmente lontano dalla nostra vista.

Considerando che l’attore sociale opera in un contesto di relazioni, le sue azioni saranno inevitabilmente costruite, e appunto, delimitate da una serie di regole e norme che ne stabiliscono il raggio di competenza.

Ai fini di una maggior comprensione della disabilità, è necessario considerare la violenza simbolica, quel concetto di pratica di dominio misconosciuta teorizzata da Bourdieu (Scianchi,2012).

Il termine misconosciuto è dovuto al fatto che tale violenza non è socialmente riconosciuta, l’esercizio della violenza è un dato a priori, che non presuppone alcuna attività di riflessione critica e che gli attori sociali continuano ad esercitare in quanto prassi comune e consolidata in un determinato contesto sociale.

Un fenomeno complesso, quello della disabilità, il quale, nella società odierna, anche secondo un approccio medico, è il riflesso dell’interazione tra il corpo della persona e la società in cui essa stessa vive. Una condizione dai molteplici aspetti si presta dunque a diversi livelli di analisi, come indicato dal modello multidimensionale sociologico della disabilità. Nonostante i limiti, che saranno evidenziati nelle versioni successive, questa classificazione inizia a porre l’enfasi “sull’essere sociale” rispetto all’ “essere patologico” dell’individuo; formalmente in Italia la L.104/1992[8]  recepisce tali formulazioni ravvisando la necessità di una tutela delle istituzioni riguardo il fenomeno sociale della disabilità (Scianchi,2012;231).

Tale attenzione si ravvisa però già Costituzione italiana del 1946, nei dettami dell’art. 2[9]  e dell’art.32 comma 1, in quest’ultimo la tutela della salute è riconosciuto come un diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti (Di Santo,2013;94).

 Nel processo di marginalizzazione non agisce causalmente e necessariamente una condizione di menomazione fisica e psichica di origine anatomica e fisiologica.

La nozione sociologica di Handicap si riferisce alla pratica dell’esclusione e dell’emarginazione della comunità verso un soggetto diverso; la scomparsa graduale e progressiva di questo termine nella letteratura scientifica internazionale[10] vuole forse nascondere l’esistenza di tali processi di stigmatizzazione? Ancor sui limiti inerenti la società e i processi di esclusione e facilitazione, è necessario specificare che il termine istituzione sociale in una declinazione sociologica, coincide con i modelli di comportamento in generale delle organizzazioni e degli apparati.

Questo termine, per esprimersi pienamente necessita della presenza di norme che delimitano la sfera d’azione dei suoi componenti.  In generale le forme dell’istituzione intese come azione, danno luogo, appunto, a sistema d’azione (Reimann,1953).

In tal senso l’istituzione è l’impianto di regole che permette l’organizzazione di risorse umane e materiali e può riferirsi anche alle agenzie di socializzazione quali famiglia, scuola, mass-media e servizi sanitari (Di Santo,2013;102); l’istituzione in una società civile, è ben rappresentata anche dal suo ordinamento giuridico.

Quale è dunque il concetto di normalità, imprescindibilmente legato a quello di norma, nelle pratiche sociali umane di una società, la quale, attraverso l’operato delle sue istituzioni, si proietta sui cittadini, e a cui essi stessi si rivolgono idealmente (alla norma) per rivendicare i loro diritti?

La normalità è comunque non solo prodotta dalla norma, ma è anche la normalità stessa a produrre le norme giuridiche, esse sono espressione e conseguenza della normalità.

Quest’ultima, in varie declinazioni sociologiche, è indagata dal filosofo Foucault in numerose sue opere.

L’autore francese, infatti, intende la normalità esclusivamente come il prodotto di una costruzione culturale, sociale o storica (Siniscalchi:14).

 Il potere regolamenta gli spazi, le abitudini i comportamenti e crea gerarchie. Ne consegue che la normalità è il prodotto di una norma.

 L’ottica che caratterizza il pensiero dell’autore si caratterizza per la corrispondenza tra normalità e giudizio; lo stesso è solitamente espresso da coloro che si ergono dietro un quasi invalicabile muro di conoscenza e sapere (ad esempio, tutti i tipi di sapere scientifico).

Eppure, secondo l’autore francese in natura non esiste un concetto di normalità (e anche di anormalità) a priori; tutto è un costrutto sociale e culturale, infatti “…La norma non è un principio di intelligibilità; è un elemento a partire dal quale un determinato esercizio del potere si trova fondato e legittimato. […] La norma porta con sé, al tempo stesso, un principio di designazione e un principio di correzione. La norma non ha per funzione quella di escludere, di respingere. Al contrario, essa è sempre legata a una tecnica positiva di intervento e di trasformazione, a una sorta di progetto normativo” (Focault,2000;52-53).

Lo studioso francese asserisce anche che la funzione della norma, (paragonabile a quella di un modello), è quella di gerarchizzare, escludere, paragonare o differenziare per poter stabilire e decidere cosa sia normale o cosa no, in una determinata società e in un dato momento storico.

Il processo di normalizzazione descritto da Foucault assolve tale poliedriche funzioni e si snoda in vari ambiti del sapere. In tal senso, dunque, la norma altro non è che l’espressione di un potere (Siniscalchi, 2007:18).

L’handicap, inteso in un’accezione sociologica, comprende il significato dell’etichetta attribuita al diverso, in cui emerge palesemente il limite costruito dalle relazioni umane sia in ambiti formali, sia informali. L’autore Di Santo insiste a voler utilizzare il termine handicap, che seppur in disuso, rappresenta efficacemente il fatto che “la situazione di svantaggio sociale non nasce da una condizione patologica bensì socio culturale. L’Handicap è dunque lo stigma, il marchio infuocato che viene affisso dalla società agli individui considerati diversi. E per questo la vittima non viene sostenuta, aiutata, facilitata, bensì estromessa dal contesto di vita” (2013;128).

[1] Sociologicamente tale concetto è sviluppato da Ardigò( 1997) e successivamente da Cipolla(2005), il quadrilatero di Ardigò è composto dall’ interazione di quattro elementi: la natura esterna  ovvero l’ambiente fisico in genere rispetto al sistema sociale; il sistema sociale, cioè la rete di comunicazione tra individui con le sue peculiari caratteristiche; la persona come soggetto, tra l’Io (ego) e il Social self (Me); la natura interna ovvero il corpo come entità biologica a partire dal patrimonio genetico. I successivi sviluppi di tale impostazione rilevano come emergano due rappresentazioni della malattia, una legata al sapere medico e una come espressione soggettiva del malato nel suo mondo vitale. Gli stili di vita, passando per la stratificazione sociale incontrano la salute nella società di riferimento, la natura esterna viene definita ambiente e interagisce con il sistema sociale, inteso anche organizzazione delle cure in sanità, il soggetto è l’attore nel processo di cura e terapia. La connessione è tra i livelli di analisi sociologica micro, macro e meso. Sulla scorta di queste considerazioni Giarelli elabora il modello correlazionale di sistema della salute (2003), una struttura composta da interconnessioni analitiche dette multidimensionali che oltre ad essere utile per l’analisi comparativa di un sistema sanitario fornisce prospettive che vanno oltre quest’ultimo (Di Santo,2013;31-32-33).

[2] La totalità delle esperienze di malattia sono essenzialmente semantiche, secondo tale orientamento il malato cercherà dei modelli esplicativi nella sua cultura per comprenderla, costruiti in base alle reti semantiche della malattia nel suo contesto sociale. L’approccio clinico si basa allora su un dialogo ermeneutico tra due universi di significato attraverso un processo empatico tra medico e paziente (Giarelli, Venneri,2012;272).

[3] Psichiatra e antropologo della Harvard Medical School, è considerato il punto di riferimento per l’approccio della Medicina Narrativa.

[4]   Secondo Goffman (2003) ed il filone dell’interazionismo simbolico (Mead), la relazione sociale è parte fondamentale della costruzione del sé; sotto tale prospettiva, la norma assume la forma di un modello o di un ideale costruito e connotato socialmente e storicamente. Le percezioni e le rappresentazioni del diverso assumono i connotati dello stigma, secondo cui si attribuisce un significato dispregiativo e negativo ad una determinata formazione sociale (o ad un individuo) che finisce per connotarne l’intera esistenza. Goffman divide lo stigma in tre tipologie: le deformazioni fisiche, gli aspetti criticabili del carattere (passioni sfrenate, disonestà, mancanza di volontà…), le credenze dogmatiche legate alla tribù, al concetto di razza e di nazione.  La conoscenza di questi aspetti, per l’autore, deriva dalle conoscenze sulle malattie mentali, sulle condanne penali, sull’uso abituale di sostanze illecite; sul comportamento politico radicale e altro.

[5] L’autore elabora la combinatoria DIS, riprendendo autori quali Hoffman e Twaddle, la quale rappresenta sette possibilità dall’incontro della triade della malattia. Tale modello è utile per analizzare diverse situazioni patologiche, le varie dimensioni della malattia e i tre punti di vista principali, del malato, del medico e della società (Giarelli, Venneri,2007).

[6] Ai primordi del ventesimo secolo, la nascita dei test mentali negli Stati Uniti si accompagnava alla generazione di un nuovo tipo di persona: il moron (dal greco moros che si traduce con stupido, che corrisponde all’inglese feeble mindeness, ovvero debolezza mentale.) (Medeghini, 2013:180).

La pratica dei test mentali alimentò la decadenza del primato di autorità degli istituti per deboli di mente; nell’America degli anni quaranta si originarono nuove modalità di vita per i disabili intellettivi, come l’inserimento nelle comunità e nelle classi speciali all’interno delle scuole pubbliche. Le stesse classificazioni subirono delle trasformazioni e si allargarono i confini spaziali in cui poter scorgere tali difficoltà.  I test furono infatti somministrati ai carcerati, alle prostitute, agli studenti ed ai poveri, nell’ottica dell’ampliamento della definizione di disabili (atto ad includere una moltitudine di categorie sociali tra loro diverse).

 La debolezza mentale, unitamente alle circostanze ambientali, era identificata come causa della criminalità ed era ereditaria. A tale scopo, furono eseguiti test su una moltitudine di detenuti al fine di trarre tale conclusione. L’etichetta del deviante associata al ritardo mentale era dunque compiuta.

L’utilizzo delle valutazioni di test mentali servirono da supporto per campagne di sensibilizzazione pubblica connesse a temi quali l’alcolismo, la povertà, la criminalità. Il ritardo mentale si manifestava dunque come un problema sociale.

Nonostante il fatto che Binet e Simon avessero escluso l’eziologia e il trattamento nell’elaborazione dei test in esame, riferendosi esclusivamente ad una misurazione dello stato mentale attuale dei soggetti, i test stessi finirono per essere associati a questioni di ereditarietà e si adottarono leggi sulla sterilizzazione e sulla segregazione per i deboli di mente.

L’origine dei suddetti test si verifica agli inizi del ‘900 allorquando il Ministro dell’educazione francese intese stabilire una distinzione tra bambini normodotati e non, ai fini di pianificare una tipologia di educazione differenziata.

Binet e Simon svilupparono dunque il primo strumento di misurazione quantitativa dell’intelligenza umana: una scala che prendeva il nome dai due suddetti autori. Nel corso del tempo tale metodologia ha subito numerose modifiche e oggi il test utilizzato in clinica e nella ricerca è lo Standford-Binet. Frequentemente viene utilizzato anche il WISC-r (Weschler Intelligence Scale for children-Revisited). Grazie a tali strumenti è possibile identificare il livello di intelligenza globale dell’individuo, tramite una scala numerica che fissa il limite della norma a 69, fino ad arrivare all’eccellenza con un intervallo che parte da 130 e prosegue oltre. Tali dati sono confrontati con parametri statistici rappresentanti la norma, e si identifica il grado di deviazione evidenziato dalle prove effettuate rispetto ai risultati raggiungibili nella media di una data popolazione.

 La definizione oggi comunemente accettata di ritardo mentale nella comunità scientifica e medica è quella fornita dall’ICD-10(Classificazione Internazionale delle malattie, OMS): “Il ritardo mentale è una condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali.” Bisogna necessariamente ricordare che tale tipologia di classificazione risente delle differenze culturali in cui è stata prodotta e probabilmente non sempre è possibile applicare le definizioni in popolazioni dalle culture diverse. Così come il DSM V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Associazione Psichiatri Americani,2013) è un altro prodotto della cultura americana che solitamente è utilizzato nell’ambito clinico della diagnosi.

 La teoria dell’identità sociale sviluppata da Tajfel (1981) afferma che gran parte di quella individuale deriva dalle appartenenze a gruppi sociali (famiglia, genere, etnia..), la costruzione di tale identità si origina dal confronto con altri gruppi o categorie, nasce dalla negoziazione di significati e dalla comunicazione con gli altri. In genere si sovrastimano le capacità del proprio gruppo di appartenenza e si sottostimano e amplificano le differenze con gli altri. Secondo Moscovici (1982) le rappresentazioni sociali forniscono ordine nel mondo degli individui, l’altro inteso come colui che non si conosce porta a un lavoro cognitivo nel singolo fatto di dissonanze, emozioni, stereotipi che avviene tramite il processo di ancoraggio, questo consiste nella categorizzazione e nella classificazione, ai fini di ricostruire la percezione del nuovo con concetti familiari.

Altro processo elaborato da Moscovici è l’oggettivazione, in cui si attribuiscono a concetti astratti (es. la paura del disabile) qualcosa che esiste in natura, di fisico. La cultura esterna modifica continuamente i nostri pensieri (Inghilleri,2009;19-20).

[8] La principale legge è la 104/1992 che attiene all’assistenza, all’integrazione sociale ed ai diritti delle persone handicappate. La piena dignità e partecipazione alla vita civile, così come tutti i diritti che ne derivano, sono previsti da questa legge, così come il diritto all’istruzione e alla cultura.

L’art. 3 della legge citata così definisce la persona disabile: “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

La nozione di handicap è legata alla menomazione in rapporto di causalità lineare ed è mancante di riferimenti all’ambiente e alla comunità in cui il soggetto svolge la sua esistenza.

Il concetto espresso di differenziazione tra handicap ed handicap grave non ha visto la predisposizione di un sistema metodologico di valutazione che possa accertarne efficacemente l’esistenza.

Si ricorda al riguardo la proposta dell’Osservatorio per i diritti delle persone con disabilità, recepita con il D.P.R. 4 ottobre 2013 (Adozione del programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità), in cui si ribadisce il concetto secondo cui la piena uguaglianza di diritti umani accomuna la totalità della popolazione, disabili inclusi. Tale programma di azione, proposto dall’Osservatorio nazionale di cui sopra, si articola in 7 linee di intervento al fine di realizzare i contenuti della Convenzione Onu (Treaty document, Italia Onu,2102).

[9]  “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il principio personalista qui espresso pone ai massimi vertici del nostro ordinamento giuridico i valori della persona umana come individuo e come costituente essenziale della società, nessuna libertà collettiva prescinde dalle libertà dei singoli (principio pluralista); il principio solidarista è rintracciabile nel dovere di operare a vantaggio della società, si passa dal ruolo di persona a quello di cittadino responsabile. (www.comune.bologna.it)

[10] La Classificazione Internazionale del funzionamento della salute e della disabilità del 2001 dell’Oms ricerca un linguaggio neutrale ed elimina la parola handicap, precedentemente descritta nella classificazione internazionale del 1980. La visione corrisponde al modello bio psico sociale, in cui la disabilità è in stretta relazione con l’ambiente sociale di riferimento.

Il testo intende fornire una prospettiva delle diverse componenti della salute a livello biologico, individuale e sociale (ICF,2001).

PER SAPERNE DI PIU’:

Le rappresentazioni mediali della disabilità

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Da sempre appassionata di libri e letteratura ho creato questo sito per scrivere e, possibilmente, condividere con altri "conversazioni virtuali" su temi d'attualità e non, ma anche più circoscritti, quali la sociologia, la medicina, la scienza. A chi d'interesse...Buona lettura!!

4 pensieri riguardo “I mille volti della disabilità

  1. ciao, ho visto che mi stai seguendo, ho dato un’occhiata all’articolo e mi pare che sia ottimo per una dissertazione filosofica in sede di tesi di laurea o in un ambulatorio, in realtà i “volti” della disabilità sono infiniti, sono innumerevoli. Ho fatto anche io sociologia, psicologia, antropologia, ho scritto mille cose asettiche ma interessantissime, peccato che poi a conti fatti quando devi avere a che fare con la disabilità queste cose non servano a nulla. Scusa la polemica ma immaginerai che la cosa mi tocca da molto vicino. Mi piacerebbe che l’approccio alla disabilità non fossero una manciata di articoli che nella realtà si trasformano in nulla di fatto.
    La disabilità è un argomento usato per fare bella figura o riempirsi la bocca di bei concetti dai più, ma nella realtà in cosa si traduce? Che aiuti ci sono sui posti di lavoro? Che regole ci tutelano davvero? Chi si prende davvero in carico di fare da garante per i disabili? In Italia non abbiamo nemmeno i marciapiedi per le carrozzine ma abbiamo i codici che ci tutelano….bella roba 😦
    Tu che te ne occupi spero avrai più lungimiranza.
    In bocca al lupo per la tua tesi 🙂 e grazie di seguirmi

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    1. Ciao! Mi fa piacere seguire il tuo blog; e soprattutto che si sia aperta una discussione che è sempre ben accetta! Io me ne sono occupata durante la tesi di laurea e gli articoli, come hai ben capito sono accademici. La situazione è come dici tu, infatti la differenza tra teoria e realtà raggiunge livelli abissali. Infatti la mia critica sta proprio in questo, a partire dalla scuola fino al mondo del lavoro dove i disabili scompaiono…il mio approccio non vuole essere un argomento da salotto per far bella figura, sia chiaro, ma alimentare il fatto che se ne parli e che sia oggetto di discussione, questo il mio modesto e piccolo contributo. Nella vita ho avuto a che fare con persone disabili per motivi personali e comprendo le reali difficoltà di chi le affronta. E allentare soprattutto stigma pregiudizio e stereotipi che inquinano le relazioni tra persone, ma anche delle istituzioni. Fai bene a criticare una realtà che manca di pragmatismo e sulla disabilita c è davvero ancora tanta strada da fare nella società! Seguirò il tuo blog volentieri e spero ci scambieremo ancora opinioni! Ben vengano!

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      1. Grazie 🙂 infatti la mia critica non era verso di te, ma verso le istituzioni o verso chi redige questi articoli che se non seguiti da una realtà tangibile restano solo parole vuote. Mi fa un sacco piacere questa discussione 🙂

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